Ritorno al Mondo Nuovo

di Aldous Huxley

Capitolo III

 

 

SUPERORGANIZZAZIONE.
La via più breve e più larga che conduce al mondo nuovo passa, come già
accennato, per una tappa fondamentale: l’eccesso di popolazione,
l’accresciuto ritmo di incremento demografico: due miliardi e ottocento milioni
oggi, cinque miliardi e cinquecento milioni al volgere del secolo, sì che
all’umanità si pone la scelta fra l’anarchia e il controllo totalitario.
Ma la crescente pressione del numero sulle risorse disponibili non è la sola
forza che ci spinge verso il totalitarismo.
Questo cieco nemico biologico della libertà si allea ad altre forze
potentissime, generate dai progressi tecnologici di cui più andiamo
orgogliosi.
Orgogliosi a buon diritto, potremmo aggiungere; infatti tali progressi sono
frutto di intelligenza, di lavoro continuo e difficile, di logica, di fantasia, di
sacrificio: in una parola derivano dalle virtù, morali e intellettuali, che noi non
possiamo non ammirare.
Ma la Natura delle Cose è tale che a questo mondo nessuno ottiene mai
nulla per nulla.
Questi progressi ammirevoli, stupendi, si scontano.
Anzi, già li stiamo scontando, come la lavatrice elettrica comprata l’anno
scorso, e le rate sono sempre più gravose.
Storici, sociologi, psicologi hanno scritto molto, e con molto impegno, sul
prezzo che l’uomo d’Occidente ha pagato e sta pagando per il progresso
tecnologico.
Affermano, per esempio, che difficilmente può sperarsi che fiorisca la
democrazia nelle società in cui il potere economico si concentra e si
centralizza sempre di più.
Ma il progresso della tecnologia ha portato, e sta portando, proprio a questa
centralizzazione del potere.
L’apparato della produzione di massa, migliorando la sua efficienza, tende a
farsi sempre più complesso e costoso, meno accessibile quindi
all’imprenditore che abbia mezzi limitati.
Non solo: la produzione di massa non sta in piedi senza distribuzione di
massa, e la distribuzione di massa crea problemi che soltanto i grossi
produttori possono risolvere adeguatamente.
Dove la produzione e la distribuzione divengono fenomeni di massa, grave è
lo svantaggio dell’Uomo Piccolo, che non possiede una sufficiente riserva di
capitale operante.
Se entra in concorrenza con l’Uomo Grosso, perde prima i quattrini, e poi
anche la qualità sua medesima di produttore indipendente; l’Uomo Grosso lo
ha ingoiato.
E scomparendo l’Uomo Piccolo, una quantità sempre maggiore di potere
economico si riduce nelle mani di un numero sempre minore di individui.
Sotto la dittatura la Grande Impresa, resa possibile dal progresso tecnologico
e dalla conseguente rovina della Piccola Impresa, cade sotto il controllo dello
Stato; cioè, di un piccolo gruppo di dirigenti politici e militari, di poliziotti, di
funzionari che eseguono certi ordini.
In una democrazia capitalista, come gli Stati Uniti, la Grande Impresa cade
sotto il controllo di quella che il professor C. Wright Mills definisce ‘élite al
potere’.
Questa élite impiega direttamente la forza lavorativa di milioni di cittadini
nelle sue fabbriche, nei suoi uffici, nei suoi negozi, altri milioni controlla, e
anche meglio, prestando loro i soldi perché comprino i suoi prodotti; ed
essendo proprietaria dei mezzi della comunicazione di massa, influenza
pensieri, sentimenti e azioni di tutti, in pratica.
Parodiando una frase di Churchill potremmo dire che mai è accaduto che
tanti uomini si lasciassero manipolare da un così ristretto gruppo.
Siamo assai lontani dall’ideale jeffersoniano di una società veramente libera,
composta da una gerarchia di unità capaci di autogovernarsi, l’embrionale
repubblica del quartiere, la repubblica della contea, la repubblica dello Stato
e la repubblica dell’Unione, che formano una gradazione di autorità.
Noi vediamo dunque che la tecnologia moderna ha portato alla
concentrazione del potere economico e politico, e alla formazione di una
società controllata (spietatamente negli stati totalitari, pulitamente,
nascostamente nelle democrazie) dalla Grande Impresa e dal Gran Governo.
Ma le società sono composte di individui e sono buone solo nella misura in
cui aiutano gli individui a realizzare le proprie possibilità, e a condurre vita
felice e creativa.
Ebbene, i progressi tecnologici di questi ultimi anni in che senso hanno agito
sull’individuo? Ecco la risposta del filosofo e psichiatra dottor Erich Fromm:
“La nostra società occidentale contemporanea, nonostante il progresso
materiale, intellettuale e politico, è sempre meno capace di condurre alla
sanità mentale, e tende a minare invece la sicurezza interiore, la felicità, la
ragione, la capacità d’amore nell’individuo; tende a trasformarlo in un automa
che paga il suo insuccesso di uomo con una sempre più grave infermità
mentale, con la disperazione che si cela sotto la frenetica corsa al lavoro e al
cosiddetto piacere”.
La nostra sempre più grave infermità mentale può esprimersi in sintomi
nevrotici, palesi, quanto mai desolanti.
Ma attenti continua il dottor Fromm a non ridurre l’igiene mentale alla
semplice prevenzione dei sintomi.
I sintomi, in quanto tali, sono per noi non nemici, ma amici; dov’è un sintomo,
là è conflitto, e conflitto significa sempre che forze vitali lottano ancora per
l’integrazione e per la felicità.
Le vittime veramente disperate dell’infermità mentale si trovano proprio fra gli
individui che paiono normalissimi.
Molti di essi sono normali solo perché si sono adattati al nostro modo
d’esistenza, perché la loro voce di uomini è stata messa al silenzio in età così
giovane che essi nemmeno lottano, né soffrono, né hanno i sintomi del
nevrotico.
Non sono normali, diciamo così, nel senso assoluto della parola; sono
normali solamente in rapporto a una società profondamente anormale.
Il loro perfetto adattamento a quella società anormale è la misura della loro
infermità mentale.
Questi milioni di individui abnormemente normali, che vivono senza gioia in
una società a cui, se fossero pienamente uomini, non dovrebbero adattarsi,
ancora carezzano l’illusione della individualità ma di fatto sono stati in larga
misura disindividualizzati.
Il loro conformismo dà luogo a qualcosa che somiglia all’uniformità.
Ma uniformità e libertà sono incompatibili.
Uniformità e salute mentale sono anch’esse incompatibili…
L’uomo non è fatto per essere automa, e se lo diventa, va distrutta la base
della sanità mentale.
Nel corso dell’evoluzione la natura si è adoperata in ogni modo perché
ciascun individuo fosse diverso da tutti gli altri.
Noi riproduciamo la nostra specie mettendo i geni del padre a contatto con
quelli della madre.
Questi fattori ereditari possono combinarsi in modi pressoché infiniti.
Da un punto di vista fisico e mentale, ciascuno di noi è unico.
Qualsiasi cultura che, nell’interesse dell’efficienza o in nome di un dogma
religioso o politico, cerca di standardizzare l’individuo umano, commette
un’offesa contro la natura biologica dell’uomo.
La scienza può definirsi riduzione della molteplicità all’unità.
Essa cerca di spiegare l’infinita diversità dei fenomeni naturali ignorando
l’unicità dei singoli fatti, mettendo a fuoco quel che essi hanno in comune, e
infine astraendo una ‘Iegge’ per la quale i fatti prendano senso e sia quindi
possibile affrontarli.
Per esempio, le mele mature cadono dall’albero e la luna si muove in cielo.
Da tempo immemorabile gli uomini hanno osservato l’uno e l’altro fatto.
Come Gertrude Stein, erano convinti che una mela è una mela è una mela,
mentre la luna è la luna è la luna.
Toccava a Isaac Newton scoprire che cosa questi due diversissimi fenomeni
avevano in comune, e formulare una teoria della gravitazione, grazie alla
quale taluni aspetti del comportamento delle mele, dei corpi celesti, e anzi
d’ogni altro oggetto dell’universo fisico, si potessero spiegare e affrontare nel
contesto di un unico sistema di idee.
Con lo stesso spirito l’artista prende le innumerevoli diversità e unicità del
mondo esterno e la propria fantasia, e dà a tutto un significato entro un
sistema ordinato di moduli plastici, letterari o musicali.
Il desiderio di imporre ordine al caos, di trarre armonia dalla dissonanza,
unità dalla molteplicità, è una sorta di istinto intellettuale, di slancio primario e
fondamentale della nostra mente.
L’opera di questa che io definirei ‘volontà d’ordine’ è quasi sempre benefica,
nel campo della scienza, dell’arte, della filosofia.
Certo, la ‘volontà d’ordine’ ha condotto a molte sintesi premature, fondate su
prove insufficienti, a molti sistemi metafisici e teologici assurdi, a molti errori
pedanteschi, che fanno scambiare una idea per una realtà, un simbolo e
un’astrazione per dati d’esperienza immediata.
Ma questi errori, seppur incresciosi, non fanno mai gran male, almeno
direttamente, anche se indirettamente può succedere che un cattivo sistema
filosofico faccia del male, quando giova a giustificare azioni insensate e
disumane.
Ma nella sfera sociale, nel dominio della politica e dell’economia, la ‘volontà
d’ordine’ diventa veramente pericolosa.
Qui la riduzione teoretica della molteplicità a unità comprensibile si muta in
pratica in riduzione della diversità umana a uniformità subumana, della libertà
a servitù.
L’equivalente politico di una teoria scientifica o di un sistema filosofico
compiuto è la dittatura totalitaria.
L’equivalente economico di una ben composta opera d’arte è la fabbrica che
va avanti sempre liscia, con gli operai perfettamente adattati alle macchine.
La ‘volontà d’ordine’ può trasformare in tiranno chi voleva solamente spazzar
via la confusione.
La bellezza dell’ordine serve di giustificazione al dispotismo.
L’organizzazione è indispensabile, perché la libertà sorge e acquista senso
solo entro una comunità che sappia regolarsi da sé, composta di individui
liberi e cooperanti.
Ma l’organizzazione, seppur indispensabile, può anche essere letale.
L’eccessiva organizzazione trasforma gli uomini in automi, soffoca lo spirito
creativo, toglie ogni possibilità di liberazione.
Come sempre, la via di mezzo è quella sicura: fra l’estremo del “laissez-faire”
da una parte e il controllo totale dall’altra.
Nel secolo scorso ai successivi progressi tecnologici si sono accompagnati
analoghi progressi organizzativi.
Alla complessità delle macchine doveva accompagnarsi la complessità degli
accorgimenti sociali, intesi a funzionare in modo liscio e perfetto, come i
nuovi strumenti di produzione.
Per adattarsi a queste nuove organizzazioni, gli individui dovevano
disindividualizzarsi, negare la propria originaria diversità, conformarsi a un
modulo medio, insomma fare il possibile per mutarsi in automi.
Gli effetti disumanizzanti della superorganizzazione si aggravano,
sommandosi agli effetti disumanizzanti della sovrappopolazione.
L’industria, ampliandosi, attrae nelle grandi metropoli una porzione sempre
più grande dell’umanità, che cresce.
Ma la vita nelle grandi città non dà luogo alla salute mentale (ecco infatti che
la più alta incidenza della schizofrenia si ha proprio nei formicai dei quartieri
urbani poveri); né sollecita quel tipo di libertà responsabile entro un gruppo
capace di autogovernarsi, che è la condizione prima della democrazia
effettiva.
La vita di città è anonima e, per così dire, astratta.
Gli individui entrano in rapporto l’uno con l’altro, non come personalità totali,
ma come incarnazioni di altrettante funzioni economiche; o, quando son fuori
del lavoro, come cacciatori irresponsabili di divertimento.
Soggetto a una vita simile, l’individuo si sente sempre più solo e
insignificante.
La sua esistenza cessa d’avere un qualche scopo, un qualche senso.
Biologicamente parlando l’uomo è un animale di gruppo solo in misura
ridotta, e mai completamente è animale sociale; somiglia, diciamo, più al lupo
o all’elefante che all’ape o alla formica.
Nella loro forma originaria le società umane non somigliavano affatto
all’alveare o al formicaio, erano puri e semplici branchi.
Per civiltà s’intende, fra le altre cose, il processo grazie al quale i branchi
primitivi si trasformarono in un equivalente rozzo e meccanico delle comunità
organiche degli insetti sociali.
Oggi la pressione del mutamento tecnologico e dell’incremento demografico
accelera tale processo.
Il termitaio ormai sembra un ideale realizzabile e, ad alcuni auspicabile.
C’è un abisso fra l’insetto sociale e il mammifero di cervello grosso, poco
disposto ad associarsi; e anche se il mammifero facesse del suo meglio per
imitare l’insetto, l’abisso resterebbe.
Per quanto si sforzino, gli uomini non possono creare un organismo sociale.
Possono creare solamente un’organizzazione.
Se tentano di creare un organismo, finiranno per mettere in piedi un
dispotismo totalitario e basta.
“Il mondo nuovo” voleva essere un quadro fantasioso, a tratti irrispettoso, di
una società nella quale il tentativo di ricreare gli esseri umani a simiglianza
delle termiti si è spinto fino ai limiti del possibile.
Mi pare ovvio che noi ci stiamo spingendo nella direzione del mondo nuovo.
E mi pare altrettanto ovvio che, volendo, noi possiamo rifiutare di cooperare
con le forze cieche che ci danno la spinta.
Per adesso tuttavia la volontà di resistere non mi pare né molto forte né
molto diffusa.
Ha giustamente osservato William Whyte, nel suo notevolissimo libro, The
“Organization Man”, che al nostro sistema etico tradizionale (in esso
l’individuo ha importanza primaria) si va sostituendo un’Etica Sociale.
Le parole chiave di questa etica sono: ‘adattamento’, ‘condotta socialmente
orientata’, ‘appartenenza’, ‘acquisizione di capacità sociali’, ‘Iavoro di
squadra’, ‘vita di gruppo’, ‘Iealtà di gruppo’, ‘dinamica di gruppo’, ‘pensiero di
gruppo’, ‘creatività di gruppo’.
Presupposto fondamentale è questo: il complesso sociale ha maggiore
importanza e significato delle parti individuali; le differenze biologiche innate
debbono sacrificarsi all’uniformità culturale, i diritti della collettività vengono
prima di quelli che nel diciottesimo secolo si chiamarono Diritti dell’Uomo.
Secondo l’Etica Sociale aveva assolutamente torto Gesù, quando affermava
che il Sabato è fatto per l’uomo.
Al contrario, l’uomo è fatto per il Sabato; egli deve sacrificare le proprie
idiosincrasie ereditarie, e finger d’essere quel buon ingrediente
standardizzato che gli organizzatori dell’attività di gruppo stimano perfetto pei
loro fini.
Quest’uomo ideale è colui che mostra ‘conformismo dinamico’ (espressione
stupenda!), intensa lealtà verso il gruppo, e desiderio indomabile di
subordinarsi, di appartenere.
L’uomo ideale avrà una moglie ideale, ansiosa d’entrare nel gruppo,
adattabile all’infinito, e non soltanto rassegnata al fatto che il marito è, prima
d’ogni altra cosa, devoto alla Ditta, ma devota essa stessa, e in senso attivo.
Egli per Dio soltanto diceva Milton di Adamo ed Eva, ella per Dio in lui.
E sotto un certo importante aspetto, la moglie dell’ideale uomo organizzato è
alquanto peggiore della nostra progenitrice.
Eva e Adamo ebbero dal Signore il permesso di non soggiacere a inibizione
alcuna, in fatto di ‘giovanili vezzi’.
“E non si distolse io credo Adamo dalla bella sposa, né Eva i riti misteriosi del
connubio amoroso rifiutò”.
Oggi lo leggo sullo Harvard Business Review, la moglie dell’uomo che cerchi
di adeguarsi agli ideali dell’Etica Sociale, non deve esigere troppo tempo e
troppo interesse dal marito.
Giacché egli univocamente si concentra sul suo lavoro, anche l’attività
sessuale deve relegarsi in secondo piano.
Il monaco fa voto di povertà, castità, obbedienza.
L’uomo organizzato ha il permesso d’arricchirsi, ma promette obbedienza
(egli accetta l’autorità senza risentimenti, prende a modello i suoi superiori –
“Mussolini ha sempre ragione”) e deve essere pronto, per la maggior gloria
dell’organizzazione che lo impegna, ad abiurare anche l’amor coniugale.
Si ricordi che in “1984” i membri del partito son tenuti ad osservare un’etica
sessuale d’una severità più che puritana.
Nel mio “Mondo nuovo”, d’altro canto, tutti possono abbandonarsi ai propri
impulsi sessuali, senza remore.
La società descritta nella favola di Orwell è in guerra permanente, e i
governanti hanno due scopi: primo, naturalmente, esercitare il potere per
amore del potere; secondo, tenere i soggetti in tensione costante, come lo
stato di guerra costante esige da quelli che la devono combattere.
La crociata contro la sessualità permette ai capi di mantenere la tensione
occorrente nei loro seguaci, e al tempo stesso di soddisfare nel migliore dei
modi la propria brama di potere.
La società descritta nel “Mondo nuovo” è uno stato mondiale, da cui è
scomparsa la guerra: primo scopo dei governanti è impedire a ogni costo che
i soggetti diano fastidio.
Per far questo essi, fra le altre cose, legalizzano una certa misura di libertà
sessuale (possibile dopo l’abolizione della famiglia) che in pratica salvaguardi
tutti i cittadini del mondo nuovo da ogni forma di tensione emotiva distruttiva
(o creativa).
In “1984” la brama di potere si soddisfa infliggendo dolore agli altri; nel
“Mondo nuovo” infliggendo una forma di piacere, forse non meno umiliante.
Evidentemente l’odierna Etica Sociale altro non è se non una giustificazione
“a posteriori” di alcuni effetti indesiderabili della superorganizzazione.
E’ un pietoso tentativo di fare di necessità virtù, di trarre un valore positivo da
un dato di fatto quanto mai negativo.
E’ un sistema etico assai poco realistico, e quindi assai pericoloso.
Il complesso sociale, a cui si attribuisce un valore più grande che alle parti
componenti, non è un organismo, nel senso che ha il termine se riferito a un
alveare o a un termitaio.
E’ soltanto una organizzazione, un pezzo dell’apparato sociale.
Non può esserci valore se non riferito alla vita e alla consapevolezza.
L’organizzazione non è né conscia né viva.
Essa ha valore strumentale, derivato.
Non è un bene in sé; è un bene solamente nella misura in cui promuove il
bene degli individui che fan parte del collettivo.
Mettere l’organizzazione davanti alla persona significa subordinare il fine al
mezzo.
E cosa succede quando il fine si subordina al mezzo, lo dimostrarono
chiaramente Hitler e Stalin.
Sotto il loro spietato dominio personale i fini furono subordinati ai mezzi
organizzativi, mediante un miscuglio di violenza e di propaganda, di terrore
sistematico e di sistematica manipolazione dei cervelli.
Sotto le ben più efficienti dittature di domani ci sarà probabilmente meno
violenza che sotto Hitler e Stalin.
I soggetti di quelle dittature saranno irreggimentati, senza dolore, da squadre
di addestratissimi ingegneri sociali.
L’impegno dell’ingegneria sociale del tempo nostro, scrive un entusiastico
sostenitore della scienza nuova, è simile all’impegno dell’ingegneria tecnica
di cinquant’anni or sono.
Se la prima metà del ventesimo secolo fu l’era degli ingegneri tecnici, la
seconda può ben essere l’era degli ingegneri sociali; e il ventunesimo secolo,
immagino, sarà l’era dei Controllori Mondiali, del sistema scientifico delle
caste e del mondo nuovo.
Alla domanda “Quis custodiet custodes?”, cioè chi farà la guardia ai
guardiani, chi regolerà l’ingegno agli ingegneri?, si risponde, con un blando
sorriso, che non occorrono supervisori.
Commovente la convinzione che pare diffusa fra i professori di sociologia:
cioè che i professori di sociologia non si lasceranno mai corrompere dal
potere.
Come accadeva a Sir Galahad, la loro forza è la forza di dieci, perché è puro
il loro cuore; e il loro cuore è puro perché sono scienziati, e ben seimila ore
han dedicato agli studi di sociologia.
Ahimè, l’istruzione superiore non è necessariamente garanzia di superiore
virtù, di superiore saggezza politica.
E a questi errori nel campo etico e psicologico bisogna aggiungerne altri, di
carattere puramente scientifico.
Possiamo accettare noi le teorie sulle quali gli ingegneri sociali basano la loro
pratica, e con le quali essi giustificano la manipolazione degli esseri umani?
Per esempio il professor Elton Mayo afferma categoricamente che il
desiderio dell’uomo, d’accompagnarsi sempre nel lavoro ai suoi simili, è una
forte, se non la più forte, caratteristica umana.
Questo a me pare chiaramente falso.
Alcuni avranno desideri del tipo di quello che ci racconta Mayo; altri no.
E’ questione di temperamento e di costituzione ereditaria.
Una organizzazione sociale basata sul presupposto che ‘I’uomo’ (qualunque
uomo egli sia) desidera accompagnarsi sempre nel lavoro ai suoi simili, per
molti individui, uomini e donne, diventerebbe un letto di Procuste.
A quella organizzazione gli individui potrebbero adattarsi solo dopo che li
avremo amputati, o stirati alla ruota.
E ancora: quanto è romantico e ingannevole il quadro lirico del Medio Evo di
cui molti teorici moderni dei rapporti sociali adornano il proprio lavoro!
L’appartenenza alla corporazione, lo stato feudale, il villaggio proteggevano
l’uomo medievale per tutta la vita e gli davano pace e serenità.
Ma da cosa lo proteggevano? chiederemmo noi.
Di certo non dal padrone, che senza rammarico lo tormentava.
E insieme a quella ‘pace e serenità’ ci fu, per tutto il Medio Evo, una dose
enorme di delusione cronica, di acuta infelicità, di animoso risentimento
contro il sistema rigido e gerarchico che non permetteva alcun movimento
verticale su per la scala sociale, e ben scarso movimento orizzontale, a
quanti fossero legati alla terra.
Le forze impersonali della sovrappopolazione e della superorganizzazione,
gli ingegneri sociali che quelle forze cercano di dirigere, ci stanno spingendo
verso un rinnovato sistema medievale.
Faranno in modo che gli uomini accettino il ritorno al Medio Evo meglio di
quanto non accettassero l’età loro gli uomini che vissero nel Medio Evo; per
questo ricorreranno a talune lepidezze come quelle che si descrivono nel
“Mondo nuovo”: condizionamento dell’infanzia, ipnopedia, euforia chimica;
ma la maggioranza degli uomini e delle donne stimeranno tutto questo una
condizione di servitù.

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