I ragazzi dello zoo di Kabul

Afghanistan 2001-2016 La nuova guerra dell'Oppio

Afghanistan 2001-2016 La nuova guerra dell'OppioLa pallina liquida di brown sugar scorre lungo la stagnola scaldata dalla fiamma del fiammifero, sprigionando un filo di fumo denso inseguito e risucchiato dalla cannuccia. Faìz aspira con calma, guardando suo fratello Rahim steso poco lontano, completamente fatto: un cadavere che respira, scheletro inerte ricoperto di pelle e di mosche. All’angolo opposto della stanza, la mano tremante di Mansur stringe una siringa cercando con la punta dell’ago una vena sulla pianta del piede, l’unica parte del suo corpo devastato dove riesce ancora a iniettarsi una dose di eroina.

È l’umanità disperata e silenziosa di Jangalak, l’unico sedicente centro di disintossicazione di Kabul, ospitato nei locali che un tempo erano gli uffici amministrativi della fabbrica automobilistica Jangalak, la FIAT afgana, alla periferia sud di Kabul. Un paradiso, o quantomeno un purgatorio, per questi derelitti in confronto all’inferno in cui vivevano prima, come topi di fogna, tra le macerie dell’Elmufarang, l’ex Centro culturale russo di Kabul, enorme struttura di cemento devastata dai razzi dei mujaheddin durante la guerra civile dei primi anni Novanta, per anni ricettacolo degli eroinomani della capitale afgana. In quel dedalo di antri oscuri, umidi e puzzolenti, che un tempo erano teatri e musei, vivevano stabilmente quasi un migliaio di tossici, e altrettanti venivano qui a bucarsi. Ogni notte ne morivano due o tre, per overdose, Aids o semplicemente di fame e di freddo. L’ex centro culturale russo è stato il simbolo della nuova emergenza che ha investito l’Afghanistan con l’esplosione di un’epidemia di tossicodipendenza che è dilagata nel giro di pochi anni, di pari passo con l’aumento della produzione di oppio e soprattutto di eroina, che prima del 2001 non veniva raffinata in Afghanistan e quindi non era disponibile sul mercato interno. Tra il 2005 e il 2009, secondo i dati parziali raccolti UNODC , gli oppiomani sono aumentati del 53 per cento (passando da 150mila a 230mila) e gli eroinomani del 140 per cento (da 50mila a 120mila). Se a questi si aggiungono i tossici non censiti che vivono nei villaggi delle zone rurali, dove risiedono i tre quarti della popolazione afgana, ipotizzando un trend di crescita analogo anche negli anni successivi, il fenomeno assume dimensioni spaventose.

Ospiti del centro di disintossicazione di Jangalak, Kabul (Foto di Naoki Tomasini)
Ospiti del centro di disintossicazione di Jangalak, Kabul (Foto di Naoki Tomasini)

Quando nel 2009, su pressione dell’UNODC, la polizia afgana ha sgomberato il lazzaretto dell’Elmufarang, la maggior parte dei suoi occupanti e frequentatori si è trasferita sotto i ponti del centro che attraversano il letto secco del fiume Kabul. Altri, come Faiz, Rahim e Mansur, si sono lasciati convincere a intraprendere una terapia di 45 giorni nel centro di disintossicazione di Jangalak gestito dal Ministero della Salute afgano. «Nulla di paragonabile con gli standard europei – mi spiega Jean-Luc Lemahieu, direttore UNODC in Afghnaitsan – ne siamo ben lontani, soprattutto perché non ci sono fondi adeguati».

Ospiti del centro di disintossicazione di Jangalak, Kabul (Foto di Naoki Tomasini)
Ospiti del centro di disintossicazione di Jangalak, Kabul (Foto di Naoki Tomasini)

Girando, scortati da robusti infermieri-guardiani, tra le tende per i nuovi arrivati in cortile e tra le luride camerate senza letti, solo materassi e coperte sul pavimento e sbarre alle finestre, e osservando lo stato dei degenti rapati, scalzi e quasi tutti strafatti, si ha l’impressione di trovarsi più in una prigione che in una struttura sanitaria. Il dottor Abdullah Wardak, direttore del Dipartimento per la Riduzione del Consumo di Droga del Ministero, ammette che i risultati del programma di riabilitazione sono a dir poco deludenti: «La mancanza di finanziamenti limita l’efficacia del nostro intervento: i pazienti dimessi dai nostri diciassette centri presentano un tasso di ricaduta dell’80 per cento». Non stupisce, visto che la cura consiste semplicemente nella somministrazione di dosi decrescenti di eroina e oppio (qui non esiste la terapia sostitutiva a base di metadone) e di dosi crescenti di sedativi e analgesici man mano che si manifestano i sintomi dell’astinenza. Il tutto accompagnato da una razione quotidiana di docce gelate e prediche “motivazionali” del mullah del centro, che spiega ai ragazzi come la droga sia haram, proibita dal Corano.

«Io e mio fratello veniamo da Lashkargàh, nell’Helmand – racconta Faìz prima di cadere in catalessi – eravamo contadini, coltivavamo papaveri da oppio». Dalle piantagioni di papaveri irrigate dalle acque del fiume Helmand proviene la maggior parte dell’oppio afgano, e quindi dell’eroina. «Non avevamo idea delle conseguenze di quello che facevamo – sussurra Faìz barcollando – ma adesso che per colpa di questa merda ho perso famiglia, casa, lavoro e salute, non coltiverei più quei maledetti papaveri, nemmeno per tutto l’oro del mondo». Poi si accascia a terra per il suo ennesimo viaggio all’inferno.

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