Little America

Afghanistan 2001-2016 La nuova guerra dell'Oppio

Afghanistan 2001-2016 La nuova guerra dell'OppioGuardo imbambolato il deserto fuori dal finestrino. Siamo in viaggio da tutto il giorno e sono sfinito. Destinazione Lashkargàh, capoluogo della provincia meridionale dell’Helmand, al confine con Iran e Pakistan: terra di pashtun, roccaforte dei talebani e soprattutto incontrastata capitale afgana – quindi mondiale – dell’oppio. Partiti da Kabul prima dell’alba, abbiamo fatto solo due soste in ottocento chilometri: una a Ghazni per uno spuntino e poi a Kandahar, a mangiare spiedini di agnello alla griglia in un ristorante sulla strada.

Sono sul punto di addormentarmi, cullato dal regolare sobbalzare del fuoristrada sulle giunture dei lastroni di cemento d’epoca sovietica che ancora ricoprono questo tratto della Ring Road, quando Daud, l’autista, scala marcia e rallenta improvvisamente. Davanti a noi si materializza dal nulla una lunga colonna militare americana che procede molto lentamente. Non si può sorpassare, né avvicinarsi. Lo intima minacciosamente un cartello appeso sul retro del blindato che chiude la colonna: “Danger – Stay Back!”. Ogni volta che il convoglio si ferma, tutte le auto che lo seguono devono fare altrettanto.

Famiglia di contadini dell’Helmand (Foto di Enrico Piovesana)
Famiglia di contadini dell’Helmand (Foto di Enrico Piovesana)

Daud regge dieci minuti, bofonchiando nella sua lingua, poi si spazientisce e inizia a farsi sotto alla colonna accennando un sorpasso. Il soldato americano sulla ralla del blindato di coda ci punta contro la mitragliatrice e con la mano guantata ci fa nervosamente cenno di stare indietro. Daud, imprecando, si arrende e ristabilisce la distanza di sicurezza. Proprio in quel momento un boato ci fa sobbalzare. La colonna americana si ferma e noi con essa. Da dietro il parabrezza impolverato fissiamo in silenzio una densa nuvola di fumo nero che sale veloce qualche centinaio di metri davanti a noi da uno dei blindati del convoglio. Dagli Humvee scendono decine di giovani Marines agitati. Alcuni di loro si buttano a terra attorno ai mezzi puntando i fucili verso invisibili nemici, altri corrono armi in pugno verso di noi e le altre auto ferme urlando di andarcene. Mentre Daud riavvia il motore, un soldato particolarmente nervoso sferra un calcio contro la nostra portiera sbraitando paonazzo in volto «Get the fuck out of here!».

Un trattore per le strade di Kandahar (Foto di Enrico Piovesana)
Un trattore per le strade di Kandahar (Foto di Enrico Piovesana)

Daud ingrana la prima e voliamo giù dalla strada lungo la banchina di sabbia e pietrisco. Mi volto a guardare e scorgo la carcassa del blindato americano, sventrata da una mina radiocomandata talebana, che continua a vomitare volute di fumo nero sullo sfondo arancione delle montagne rocciose della catena Shah Maqsud illuminate dal sole al tramonto.

Per arrivare a Lashkargàh prima che faccia buio, Daud spinge sull’acceleratore facendo planare il fuoristrada sullo sterrato pietroso ai 160 all’ora, lungo una delle tante piste segnate dalle tracce dei pneumatici. Alla nostra sinistra, verso sud, si staglia all’orizzonte una linea ininterrotta di dune giallo-ocra. È il grande deserto del Registan, un mare di sabbia che si estende fino al confine con il Pakistan.

“Effetti collaterali” nell’ospedale di Emergency a Lashkargàh (Foto di Naoki Tomasini e Enrico Piovesana)
“Effetti collaterali” nell’ospedale di Emergency a Lashkargàh
(Foto di Naoki Tomasini e Enrico Piovesana)

Dopo un’ora di fuoristrada in mezzo al nulla, gli accampamenti di tende e i cammelli dei nomadi Kuci annunciano l’avvicinarsi della città. Entriamo a Lashkargàh che il sole è ormai tramontato. Superato il bazar, avvolto dal fumo che si alza dalle grigliate di kebab e dall’oscurità appena rischiarata dalla luce giallastra di deboli lampadine alimentate da generatori a gasolio, ci addentriamo nella Little America. È così che Lashkargàh veniva chiamata negli anni Cinquanta dalle centinaia di ingegneri e agronomi statunitensi che lavoravano e vivevano qui per trasformare questa landa deserta in un giardino agricolo. Di quella città-modello in stile californiano, con viali alberati, candide casette a schiera, parchi e giardini fioriti, oggi rimane solo l’impianto urbanistico ortogonale. Le strade polverose, le fogne a cielo aperto, le povere case d’argilla, i carri trainati da muli e gli sguardi sospettosi dei locali verso gli stranieri ricordano più che altro uno sperduto villaggio da film western. Le rare casette d’epoca americana rimaste in piedi, affittate dagli stranieri delle Ong internazionali, sono nascoste da cancelli di acciaio e alti muri di cemento sovrastati da filo spinato e protette da garitte, sacchetti di sabbia e guardie armate. Misure di sicurezza che non sono servite a garantire la sicurezza dei cooperanti stranieri, che infatti se ne sono andati tutti. Tutti tranne quelli di Emergency, le cui abitazioni non sono protette da alcuna guardia armata, ma solo dalla fiducia dei locali.

“Effetti collaterali” nell’ospedale di Emergency a Lashkargàh (Foto di Naoki Tomasini e Enrico Piovesana)
“Effetti collaterali” nell’ospedale di Emergency a Lashkargàh
(Foto di Naoki Tomasini e Enrico Piovesana)

È ormai buio pesto quando i nostri fari inquadrano la “E” rossa cerchiata sul cancello bianco, che si apre subito per farci entrare. Ogni volta che torno qui provo un forte senso di familiarità: ritrovo la stessa accoglienza, lo stesso calore umano, gli stessi impiegati afgani di Emergency, a partire dal vecchio cuoco che cucina burani ascoltando i Beatles come faceva negli anni Sessanta. Non spiccica una parola d’inglese, ma i suoi occhi celesti e i suoi caldi abbracci parlano da soli. Spesso ritrovo anche gli stessi medici, infermieri e chirurghi internazionali dell’Ong: italiani, svedesi, tedeschi, greci, serbi, scozzesi, indiani, kenioti. Ma soprattutto ritrovo il mio vecchio amico Matteo, capo-infermiere dell’ospedale locale.

Quello che invece non ritrovo è la tranquillità dei primi anni in cui venivo qui per il mio giornale, «PeaceReporter», tra il 2004 e il 2006, quando potevo andare in giro da solo in motorino per il bazar e spingermi addirittura fuori città, correndo lungo le rive del fiume Helmand, fino alle magnifiche rovine di Qala-i-Bost: la fortezza in mezzo al deserto in cui mille anni fa l’esercito imperiale ghaznavide si acquartierava – da cui il nome di Lashkargàh, “il posto dell’esercito” – con il suo profondo magazzino sotterraneo che ricorda il pozzo di San Patrizio e un grandioso arco di trionfo finemente decorato, riprodotto sulle banconote da 100 Afghani. In quei primi anni potevo raggiungere questa cittadina via terra direttamente da Kabul senza timore di rapimenti, talebani, imboscate e compagnia bella. Questa sarà l’ultima volta, perché le mie successive visite quaggiù le farò sempre arrivando in aereo direttamente a Lashkargàh con lo stomaco in bocca, dato che, per evitare i tiri dei lanciarazzi talebani, i piccoli monoelica qui atterrano in picchiata con una manovra a vite che per pochi interminabili minuti ti inchioda al sedile facendoti vedere solo cielo da un finestrino e terreno vorticante dall’altro.

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