Gulag

di Andrea Marcigliano

 

Cinquant’anni dalla pubblicazione di “Arcipelago Gulag”. Il primo dei tre volumi con cui Aleksandr Isaevic Solzhenicyn denunciava al mondo l’orrore di quell’universo “concentrazionario” che fu l’Unione Sovietica.

Un libro che fece scalpore. E sollevò una infinità di polemiche. Perché molti, troppi, nell’Europa Occudentale, non volevano sapere. Preferivano, come il Peppone di Guareschi, credere all’URSS della loro fantasia, e non a quella reale.

E in più vi era la congiura degli intellettuali. In Italia, più che altrove, tutti schierati, allineati e coperti, con la versione ufficiale della Sinistra. Che allora era un PCI, che, nonostante il proclamato eurocomunismo, ben poco osava distaccarsi dai diktat della Casa Madre sovietica. Almeno a livello ufficiale.

 

Non lo facevano, i cosiddetti intellettuali, per una sorta di idealismo. Almeno non in maggioranza. Nella, tacita, spartizione del potere con la DC, il PCI aveva assunto il controllo di pressocché tutta l’editoria, il cinema, il mondo dello spettacolo… la famosa/famigerata egemonia culturale.

Osare il dissenso poteva costare caro. E i nostri intellettuali hanno da sempre una tradizione “codina”… allineati con il potere quale che sia, e in cerca di prebende e vita comoda.

 

Dunque, tutti (o quasi) fascisti durante il Fascismo. Tutti (o quasi) antifascisti dopo il fascismo. Leggete, se lo ritrovate su qualche bancarella, “Italia fascista in piedi” di Nino Tripodi. Ce n’è da divertirsi. Anche se con un fondo di amarezza.

Lo stesso con l’Urss. Guai a parlarne male. Ostracismi a Solzhenicyn e alla sua opera.

E ora, invece, tutti schierati con la NATO. La Russia di Putin è il male in terra. E se provi a far riflettere sulle cause che hanno portato alla guerra, se provi a dissentire, o anche solo a sollevare qualche dubbio… allora non puoi che aspettarti l’emarginazione. O, peggio, l’accusa di filoputiniano.

I padroni, vecchi e nuovi, non hanno neppure bisogno di inviare ordini o veline. Lo zelo dei nostri intellettuali li precede.

 

Ma “Arcipelago Gulag” andrebbe letto proprio oggi. Perché Solzhenicyn non si limita a denunciare un sistema di potere aberrante. Ti fornisce gli strumenti per meglio leggere la realtà odierna.

 

Degli orrori dello Stalinismo oggi parlano, e sparlano, tutti. Anche quelli che, a suo tempo, inneggiavano a Baffone. O, per lo meno, i loro figli e nipoti.

Nessuno, o quasi, parla però del fatto che Stalin fu il portato della cultura e del sistema sovietici. E che, quanto ad orrori e dispotismo, Lenin e Trotzki non erano stati certo da meno. Anzi…

 

Nessuno ricorda che la leadership Sovietica che si macchiò di tante stragi, non era, per lo più, formata da russi. Stalin era georgiano. Ma Lenin ciuvasco di madre ucraina, Trotzki ebreo ucraino, Kruscev ucraino, Breznev ucraino… e potrei continuare.

Ma la nazionalità, qui, non conta. Il collante, la “putrida radice” come la chiama Solzhenicyn, era l’ideologia marxista-leninista. Antiumana, perché vuole ridurre l’uomo ad un ingranaggio di un sistema politico-economico. Recidendo le sue radici. Distruggendo la sua identità spirituale. Annichilendo ogni senso di comunità.

 

Ma Solzhenicyn insegna, anche, che il, defunto, sistema sovietico era solo una faccia della medaglia. Perché a questo si contrapponeva un altro sistema, solo in apparenza più umano. Ma che rendeva, comunque, gli uomini meri oggetti asserviti all’interesse di pochi. E che vedeva lucidamente involvere nella direzione che, oggi, è ormai palese.

 

Ne parlò. In esilio, nel famoso Discorso di Haward. E questo gli costò non il Gulag di ghiaccio – che già aveva sperimentato – ma una più subdola, e ovattata, congiura del silenzio. Alla fine fine, isolamento e ostracismi.

 

Dopo il crollo dell’URSS, Solzhenicyn tornò in Russia. Vivendo appartato, certo, ma denunciando la corruzione e il malaffare – verrebbe da dire il “male” – dilaganti negli anni di Eltsin. E il comportamento di un Occidente che, senza contrappesi, stava cercando di distruggere la Russia. Spogliandola delle sue ricchezze e fomentando conflitti interni. E lui, Solzhenicyn, vedeva nella separazione con l’Ucraina, da sempre parte delle Russie, un elemento di conflitto artificialmente creato. Foriero di future tragedie.

 

Parlava con coscienza di causa. Perché era di origine ucraina, di famiglia cosacca.

Poco prima che morisse, Vladimir Putin, all’inizio della sua ascesa, volle incontrare il più grande scrittore russo contemporaneo. Il vero erede di Dostoevskij.

Cosa si siano detti ci resta, purtroppo, ignoto.

Leggere, oggi, “Arcipelago Gulag” non è solo un tuffo nella, tragica, memoria del ‘900. È comprendere meglio, attraverso un grande libro, un capolavoro universale, la deriva che stiamo vivendo. E la tragedia, in prospettiva forse ancora più grande, che incombe.

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