Una donna sola al comando

di Marcello Veneziani

 

“A’ Melò, nun arzà a’voce, ‘amo sentito”. L’ultima accusa rivolta alla premier dai maestri cantori della sinistra è il tono comiziale, romanesco e urlato dei suoi ultimi interventi. Sul quale si possono dire tre cose, una buona, una cattiva e una riflessiva. La buona è che quel tono, quel fervore, quell’impeto di autenticità ha contribuito al successo popolare di Giorgia Meloni e alla percezione, giusta o sbagliata che sia, di genuinità “popolana”, di passione politica viva in un’epoca anemica, di carattere forte e verace. La cattiva è che quel tono sgradevole, quel volume alto, serve a dare l’impressione che in Italia e soprattutto fuori d’Italia l’Italia meloniana si faccia valere, faccia la voce grossa; ma sotto la retorica comiziale resta la sostanziale conformità del governo Meloni alle linee maestre della Cappa.

La notazione riflessiva è che tenta di risvegliare la sonnolenza della politica in una fase di neutralizzazione, di anestesia delle idee e delle passioni; stiamo scivolando in una specie di atrofia e afonia politica a vantaggio di una gestione tecno-funzionale. Niente riforme grandi, niente rivoluzione, solo manutenzione. Sarebbe facile obiettare che non è il tono a tenere sveglia la politica, non sono gli slogan urlati e i comizi di piazza, che sceneggiano il ritorno alla calda passione; ma dovrebbero essere i contenuti, le linee, le strategie, gli uomini scelti.

Oltre la fenomenologia dei Meloni Urlanti, come un tempo si faceva nelle bancarelle che vendono cocomeri, c’è qualcosa di più significativo da notare: il silenzio mortale della politica risale all’assenza totale di veri competitori della Meloni. Al di là dei decibel e del pittoresco, il dato politico da registrare è che la Meloni alza la voce perché non ci sono altre voci nel nostro Paese. Non so se considerarla una speciale fortuna di

Giorgia, o se sia una congiuntura favorevole solo in apparenza, ma mai come ora non c’è alcun leader che contenda la scena e lo scettro alla Meloni. Calma piatta, vuoto totale. L’unico leader che ha pregi e difetti di un leader è Matteo Renzi, ma ha un grande handicap: non raccoglie consensi e simpatie nel Paese e nel Parlamento.
Elly Schlein e Peppino Conte non insidiano la leadership, sono obiettivamente imbarazzanti, soprattutto la prima. Sicché si è invertito il racconto, anzi per farvi soffrire, la narrazione: non è la Meloni che ci porta verso la deriva autoritaria, o addirittura autocratica, ma sono i suoi oppositori che la lasciano sola al comando, senza efficaci alternative. Non so quanto durerà questo momento, magico o tragico, ma ora è così.

Credo che non si sia mai verificato un fenomeno del genere. O per essere più precisi, una totale remissione al premier di turno è avvenuta negli ultimi anni solo con alcuni tecnici, mai con un politico. Ci fu un tempo in cui Mario Monti sembrava disceso dal Sinai, col mandato del Signore e le Tavole per farci uscire dal tunnel e vedere la luce. Dieci anni dopo, la stessa apparizione divina avvenne con Mario Draghi, nelle vesti di Nuovo Messia. Prima l’adorazione, poi la rimozione veloce e l’oblio. In breve tempo il nostro presepe dimentica l’Adorato. Avanti il prossimo. Con la Meloni sta succedendo quel che non è forse mai accaduto nella nostra repubblica, nemmeno al tempo di Berlusconi: c’è il premier e poi zero, tabula rasa. E la morte di Berlusconi ha ingigantito il vuoto intorno a lei.

Ma quel che rende questo momento non solo speciale ma addirittura eccezionale, è che succede pure a livello internazionale: mai come ora non c’è un leader, uno statista, un gigante a livello euro-occidentale. Dopo Angela Merkel, è il vuoto in Europa, lontanissimi i tempi non dico dei padri fondatori, ma di Helmut Kohl e di Francois Mitterrand. Un vuoto assoluto ben espresso dalla faccia da würstel di Scholz. La Germania nei guai, la Spagna pure, l’Inghilterra ormai per conto suo, i Paesi bassi sempre più bassi e defilati; resta Macron, il presidente meno amato in Francia, ma non sa vedere oltre i Pirenei. La scena europea, così problematica, si fa drammatica se pensate a quel che succede negli Stati Uniti, nelle mani di un presidente invecchiato male e maldestro, che si candida al secondo mandato. E l’alternativa più forte a lui è il vecchio Trump, a cui l’establishment, come Willy il Coyote, sta preparando una serie di trappole e attentati per impedire che si candidi e riporti la sua cresta arancione sul pennone della Casa Bianca. A memoria di vivente non ricordo una situazione analoga. L’accoglienza tutto sommato positiva, della Meloni a livello internazionale, la disinvoltura con cui si muove nei consessi internazionali, nasce anche da questa speciale congiuntura.

La verità di tutto questo è che col passare degli anni la politica va corrispondendo al suo ruolo minore rispetto ai poteri e ai centri decisionali. La politica è sempre più una periferia subalterna di quei poteri, trasferiti da un verso al Deep State, cioè l’oligarchia in ombra del Potere con i suoi apparati, e dall’altro ai grandi centri sovranazionali della Finanza, ai giganti globali del Mercato, delle Banche, all’industria militare, sanitaria, tech…

Così i governi diventano governance.

Se la politica conta meno, il personale politico è sempre più scadente. Ed esprime leadership deboli e transitorie, a breve raggio, limitate sul piano decisionale, appese all’apparato, affiliate all’Establishment. Il resto del mondo, invece, si affida a leadership forti, ventennali, da Putin a Erdogan a Xi Jin Ping. Ma dietro gli autocrati, in quei paesi come da noi, ci sono potenti oligarchie.

Insomma, per uno scherzo del destino, la Meloni si trova alla guida dell’Italia in un momento in cui non ci sono antagonisti interni né forti leadership esterne, in Europa e negli Usa. Ha uno spazio immenso ma deve seguire percorsi tracciati e genuflettersi ad alcune edicole votive, più il tabernacolo di Mattarella. Una congiuntura eccezionale che annoto senza compiacimento né terrore ma da osservatore, pur con una certa sbigottita curiosità. La solitudine di Giorgia, ad alta voce.

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