La proprietà della moneta – La chiave di volta per comprendere e non solo…

di Fox Allen

 

Se c’è una cosa a questo mondo che dà fastidio al potere vero, cioè quello dei grandi usurai ai vertici del sistema bancario mondiale che domina il mondo e a tutti i loro collaborazionisti (grandi e piccoli), quella è il tema della proprietà della moneta (denaro). Si può parlare di qualunque cosa, sia essa politica o altro che tanto non servirà a lasciare intendere che abbiamo capito dove risiede il cuore del problema. Per esperienza personale, posso dirvi che quando si schiaccia il callo dell’usura, improvvisamente alzano tutti le antenne, scattano gli allarmi, i divulgatori fanno orecchie da mercante, sviano i discorsi, eludono le domande, o peggio ancora, a volte, iniziano gli insulti e i comportamenti più beceri. Perché? Ma è molto semplice: questa è la chiave di volta, l’unica chiave di volta per capire la vera Grande Menzogna ultra millenaria da un lato, e abbattere definitivamente il potere che tiene sotto scacco il mondo dall’altro. E questo il potere lo sa bene, ma gioca sull’ignoranza in materia monetaria dei popoli. È esattamente così che vince. Vediamo il perché.

Prima Parte

Che cos’è la moneta

Per capire cos’è la moneta bisogna partire dalla definizione che ne diede Aristotele, ossia come misura del valore. Benissimo, allora chiediamoci che cos’è questo valore, e la risposta è semplicissima. Il giurista ed emerito professor Giacinto Auriti nel suo saggio intitolato “L’ordinamento Internazionale del sistema monetario” così scrive: «Il valore è un rapporto tra fasi di tempo. Così, ad esempio, una penna ha valore perché prevediamo di scrivere; quindi, il valore è un rapporto tra il momento della previsione ed il momento previsto».

Da qui si deduce che la definizione data da Aristotele implica che la moneta, oltre che misura del valore, è anche il valore della misura. Ciò significa che ogni unità di misura possiede anche la qualità corrispondente a ciò che deve misurare. Auriti soleva fare l’esempio del metro, il quale misurando la lunghezza possiede, allo stesso tempo, anche la qualità della lunghezza; quindi, anche la moneta, misurando il valore, ha necessariamente intrinseca la qualità del valore. In poche parole, vale. Il passo successivo è evidenziare che ogni unità di misura è anche una convenzione, pertanto, ogni convenzione è una fattispecie giuridica, quindi anche la moneta stessa, è una fattispecie giuridica. Due sono state infatti le definizioni date della moneta: valore creditizio e valore convenzionale. Poiché convenzione e credito sono fattispecie giuridiche, non vi è dubbio alcuno che la moneta costituisca oggetto della scienza del diritto. Infatti, è da questa premessa che si deduce in maniera eloquente che non si può dare la definizione di moneta se non si dà la definizione del diritto. E che cos’è il diritto? Il diritto è uno strumento, perché, come sottolineava Auriti, «è il risultato di una attività creatrice dello spirito.» Poiché lo strumento è un oggetto che ha valore, non si può definire il diritto (e quindi la moneta) se non si definisce il valore. Se ci riflettete con attenzione, noterete che più che le nozioni in sé, è la logica stessa che, da sola, porta a tali conclusioni. Ma attenzione, perché questo non è tutto, poiché da tale tracciato si evince una cosa fondamentale: Il simbolo, cioè la convenzione monetaria, acquista valore semplicemente per il fatto che ci si mette d’accordo che lo abbia. Non è un caso che, sulle premesse fatte sino adesso, la previsione che ognuno di noi accetti moneta in cambio di merce e viceversa ci porta ad accettare moneta a nostra volta per poi utilizzarla in cambio di altri prodotti.

Ciò significa una cosa soltanto e la voglio dire usando le parole di Auriti: «I soldi sono carta straccia che però acquistano valore solamente perché un insieme di persone lo decide per convenzione, in previsione di poterli utilizzare. Siamo noi che diamo valore ai soldi.»

Se voi chiedete a chiunque, sia esso un giurista, un consulente finanziario, un banchiere o chiunque altro, di chi sia la proprietà della moneta all’atto dell’emissione questi fuggirà o mentirà, sapete perché? Non esiste al mondo norma giuridica che dica espressamente che la proprietà della moneta all’atto dell’emissione sia della banca centrale. Non esiste al mondo e non è mai esistita ed è proprio questo che ha fatto Auriti, cioè riempire quel vuoto giuridico mai colmato da nessun’altro al mondo.

Tornando a noi, ricordiamo che con la fine degli accordi Bretton Woods nel 1971 la moneta si sgancia completamente dalla riserva aurea, perdendo la convertibilità in oro. Ma non è che quando c’era la riserva i banchieri non emettessero moneta a loro insindacabile giudizio, anzi, al contrario, lo hanno sempre fatto e più avanti vedremo anche come. Tuttavia, è importante sottolineare che la moneta, quindi il denaro, non ha bisogno della riserva per essere prodotta. La moneta nasce senza riserva, proprio perché per essere coniata e far sì che abbia valore, necessita soltanto dei cittadini che si mettano d’accordo che quella moneta abbia valore. Si chiama Valore Indotto e ora vedremo nel dettaglio cosa significa.

 

Il Valore Indotto

Giacinto Auriti parlava di Valore Indotto della moneta facendo il paragone con la dinamo che, per induzione, tramite il movimento, genera la corrente e quindi la luce. Sulla stessa premessa, le persone che decidono convenzionalmente di utilizzare una moneta, mettendola in circolo e facendola girare, le attribuiscono e quindi le inducono valore. Si evince quindi che il valore indotto del denaro è generato dalla rete di scambi tra i soggetti che stabiliscono di farne uso. Rifacendoci all’esempio prima esposto, come la luce diventa più forte all’aumentare della velocità di rotazione della dinamo, anche il valore, quindi la forza della moneta, risulta maggiore all’aumentare della sua messa in circolazione. Tutto ciò ha una sua logica incontrovertibile, perché vuol dire che più le persone utilizzano una moneta, più questa è richiesta e guadagna valore.

La proprietà della moneta, dunque, intesa anche come simbolo, è di quell’insieme di persone che accettano per convenzione di attribuirle un valore. È fisiologico. Facciamo l’esempio della storica Lira italiana, tutti pensano che la proprietà del conio fosse della collettività che le dava valore accettandola, ossia degli italiani. Questa è una grande menzogna perché, specie negli ultimi quarant’anni, non è stato così. Infatti, dalle diciture “Biglietto di Stato” e “Repubblica Italiana” (500 Lire di carta, il Mercurio alato), si era passati alla dicitura Banca d’Italia. La scritta “Repubblica Italiana” infatti, la si poteva vedere soltanto nelle monete: allo Stato italiano era rimasto il solo diritto di conio degli spiccioli, non di altro. In più, c’è da ricordare che la Banca d’Italia non era e non è assolutamente di proprietà dello Stato, ma una S.p.A. in mano a banche private. E questo non da oggi o da ieri, ma da ben prima (come tutte le banche centrali del mondo. Sono di proprietà privata). La Banca d’Italia è stata fondata nel 1893 come istituto di diritto pubblico, ma strutturata come una società anonima.

Senza menzionare per forza le prime norme del 1893 o la legge del 1910 in cui già si evidenziava la vera natura della Banca, Bruno Tarquini, grande giurista, pretore a Roma e dal 1955 al Tribunale di Teramo, prima come giudice, poi come presidente, ex presidente della sezione penale e della Corte d’Assise di secondo grado, ex Procuratore Generale della Repubblica presso la stessa Corte d’Appello, nel suo saggio intitolato “La banca, la moneta e l’usura – la Costituzione tradita” scrive: «La posizione della Banca d’Italia subì profonde modificazioni ad opera di una serie di decreti-leggi emanati negli anni 1926 e 1927, tra cui assume rilevante importanza quello n. 812 del 6 Maggio 1926, che, unificando in capo alla Banca d’Italia il servizio di emissione dei biglietti di banca, stabilì la cessazione della analoga facoltà per il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia. Cosicché la Banca d’Italia assunse il monopolio dell’emissione dei biglietti di banca, rafforzando, anche con tale attribuzione, il ruolo di Banca Centrale, cui era certamente predestinata fin dalla nascita. Tale ruolo assunse un definitivo assetto con il R. D. L. 12 marzo 1936, n. 375 (convertito con modificazioni nella Legge 7 marzo 1938, n. 441), e con il successivo statuto, approvato con R. D. 11 giugno 1936, n. 1067. Queste disposizioni legislative confermarono l’autonomia della Banca d’Italia, alla quale, per la prima volta, fu esplicitamente riconosciuta la qualifica di “Istituto di Diritto Pubblico”, nonostante che fosse sostanzialmente mantenuta la sua organizzazione interna originaria, che, come si è accennato, era quella di una società anonima (oggi “per azioni”). Degna di rilievo è la norma contenuta nel quarto comma dell’art. 25 (come modificato dal D. P. R. 19 Aprile 1948, n. 482, e successivamente sostituito dal- l’art. 1 del D. P. R. 18 Luglio 1992), con la quale si stabilisce che il Governatore della Banca d’Italia, tra l’altro, “dispone, in relazione alle esigenze di controllo della liquidità del mercato, le variazioni alla ragione normale dello sconto e alla misura dell’interesse sulle anticipazioni in conto corrente e a scadenza fissa presso la Banca d’Italia, con proprio provvedimento da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana”. Tutto ciò per porre in evidenza l’enorme potere attribuito al Governatore, capace di incidere in maniera decisiva sulla vita della Nazione, tanto più che la sua nomina non incontra limiti temporali, a meno di dimissioni o di revoca, quest’ultima disposta dal Consiglio Superiore ed approvata con decreto del Presidente della Repubblica promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri di concerto col Ministro per il Tesoro, sentito il Consiglio dei Ministri (v. art. 19, primo e sesto comma, dello statu- to, così modificato rispettivamente dall’art. I del D. P. R. 14 Agosto 1969, n. 593, e dal D. P. R. 19 Aprile 1948, n. 482.»

 

Non andrò oltre su questo punto, ma posso solo suggerire di leggere questo libro che smonta, punto per punto, tutti i falsi miti a cui siamo stati indottrinati di generazione in generazione sulla banca d’Italia, a parte una cosa specifica che non viene mai menzionata da nessuno che credo sia d’obbligo riportare al fine di comprendere certi fenomeni e la loro portata, prima di proseguire. E lo farò attraverso le parole di Pietro Ferrari, Giurista italiano e allievo di Giacinto Auriti, riportate nel suo testo intitolato “La questione monetaria”:

“Con l’avvento dell’euro, il 28 febbraio 2002 è cessato il corso legale della lira.  La legge ha dato ai cittadini la possibilità di cambiare le lire con l’euro nei successivi dieci anni e cioè fino al 28 febbraio 2012. Con il decreto del governo Monti del 6 dicembre 2011 si anticipava di tre mesi la “cessazione di convertibilità” delle lire in euro che sarebbe avvenuta il 28 febbraio 2012. Fino al 6 dicembre 2011 le lire che erano rientrate ammontavano ad un controvalore in euro di 63 miliardi. Sono rimasti esclusi dalla conversione 1,2 miliardi di controvalore di lire euro. I possessori di banconote in lire (fiat money) non sono in realtà creditori nei confronti dello Stato (come i possessori dei Titoli di Stato), ma possessori di false cambiali (in quanto pagabili a vista solo con medesime banconote e non con once d’oro) emesse A DEBITO (solo figurativo) dalla Banca d’Italia (non dallo Stato) che come ‘controvalore’ (o copertura) non hanno nulla. È ovvio che quando cessa il corso legale rimanga solo il valore intrinseco delle banconote, ossia quello cartaceo o numismatico a meno che, per convenzione privata esse continuino ad essere accettate ed a circolare. Se così non fosse, un possessore di banconote del 1700 potrebbe pretendere di cambiarle con la rivalutazione monetaria! La Corte costituzionale italiana ha sancito indirettamente o per accidens, un principio che potrebbe risultare devastante per il sistema attuale e cioè la moneta come fattispecie reale, oggetto il cui valore nominale è di proprietà dei possessori, sottoposta casomai a decadenza e non fattispecie creditizia soggetta a prescrizione. Un primo passo necessario, ma non sufficiente. Secondo la (attuale e sedicente) Scuola Auritiana: “La sentenza della Corte costituzionale n.216/2015 ha dichiarato incostituzionale l’Art. 26 del decreto-legge 6 dicembre 2011 n. 201 emanato dal governo Monti. La sentenza nasce dalla denuncia di alcuni possessori di lire che dopo l’immediata entrata in vigore del decreto-legge si sono visti rifiutare la conversione in euro da parte delle filiali della Banca d’Italia, che ha dovuto rispettare il suddetto decreto. L’ammontare delle lire ancora detenute dai cittadini denuncianti corrispondeva a € 27.543,67. Una cifra irrisoria rispetto a 1,2 miliardi che non erano stati ancora cambiati ma che ha fatto in modo che venisse alla luce quanto vi esponiamo. La Corte scrive che la legge del dicembre 2011 voluta da Monti viola l’art. 42 della Costituzione, proprio quell’articolo che Giacinto Auriti difendeva energicamente contro il Trattato di Maastricht e che dimostra la lungimiranza del nostro luminare professore: La norma contrasterebbe, in secondo luogo, con gli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, Cost, quest’ultimo in riferimento all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, in quanto realizzerebbe, di fatto, una sorta di espropriazione ai danni dei possessori delle banconote in lire, della quale beneficiano in prima battuta lo Stato, mediante il trasferimento del relativo controvalore al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato, e in ultima analisi i possessori dei titoli del debito pubblico, che vedono cosi rafforzata la garanzia dei loro crediti. La questione è fondata, in relazione alla censurata violazione dell’art. 3 Cost.” Bene, sono esattamente gli articoli di Legge ai quali si riferiva Auriti per difendere gli italiani dall’Euro e dall’Europa delle Banche. Per capire la lungimiranza di Auriti sulla difesa di tali leggi vediamo cosa esse prevedono. L’Art. 42 della Costituzione al terzo comma sancisce che “La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale” e qui la Consulta ha dimostrato che l’impossibilità da parte dei possessori a convertire le lire si configura come un esproprio dei “beni privati” senza indennizzo perché il valore incorporato da quelle lire, ossia il loro potere d’acquisto, è stato reso nullo dall’impossibilità della conversione e quindi quelle lire sono diventate carta straccia. Si conferma, quindi, la tesi del valore per induzione giuridica di Auriti. Ossia che il valore della moneta non dipende dalla forma o dalla materia con cui è composta ma dipende dalla convenzione sociale legiferata che dà valore alla moneta per la certezza della sua accettazione. Soprattutto si conferma che la proprietà della moneta è del privato cittadino, proprio ciò che sosteneva Auriti con l’interpretazione autentica dell’Art. 42 della Costituzione”.  Occorre precisare come la Consulta non abbia fatto altro che ribadire una ovvietà, ossia che dato che “possesso vale titolo” i portatori delle banconote ne sono proprietari, non che le banconote (magari!) sono dal momento dell’emissione di proprietà popolare! La Consulta se fosse coerente nel considerare le banconote come beni il cui valore nominale è di proprietà dei cittadini possessori, potrebbe generare un effetto domino e far saltare in aria il sistema monetario mondiale.»

 

5,0 / 5
Grazie per aver votato!