Il Mondo Nuovo

di Aldous Huxley

Capitolo VIII

 

 

Fuori, tra la polvere e le immondizie (c’erano anche quattro cani adesso), Bernardo e John camminavano avanti e indietro.
E’ così difficile per me rendermi conto diceva Bernardo ricostruire.
Come se noi vivessimo su pianeti differenti, in differenti secoli.
Una madre, e tutto questo sudiciume, e poi degli dèi, l’età avanzata, la cattivasalute…
Scosse la testa.
E’ quasi inconcepibile.
Non arriverò mai a comprendere, a meno che voi non mi spieghiate…
Spiegare che cosa? Questo.
Indicò il “pueblo”.
Quest’altro.
Indicò la piccola casa fuori del villaggio.
Tutto.
Tutta la vostra vita.
Ma cosa c’è da dire? Rifatevi dall’inizio.
Dall’epoca più lontana di cui potete ricordarvi.
Ci fu un lungo silenzio.
Faceva molto caldo.
Avevano mangiato molte tortine di frumento e molto grano candito.
Linda gli disse: ‘Vieni a letto, piccolo’.
Si coricarono insieme nel grande letto. ‘Canta.’ E Linda cantò. ‘Sullo
streptococco andate a Banbury-T’ e ‘Buon viaggio, piccolo bambino, presto tu sarai travasato.’ La sua voce si fece sempre più fioca.
Ci fu un grande rumore, ed egli si svegliò di soprassalto.
Un uomo stava in piedi presso il letto, enorme, spaventoso.
Diceva qualche cosa a Linda, e Linda rideva.
Essa s’era tirata la coperta fin contro il mento, ma l’uomo la strappò via.
I suoi capelli sembravano due corde nere, e attorno al braccio portava un braccialetto d’argento con delle pietre azzurre.
A lui, John, piaceva il braccialetto; ma ciononostante aveva paura; nascose la faccia contro il corpo di Linda.
Linda passò la mano su di lui, e così egli si sentì più sicuro.
Con altre parole che egli non comprendeva tanto bene, essa disse all’uomo.
‘Non in presenza di John’.
L’uomo lo guardò, poi si volse di nuovo a Linda e mormorò qualche parola con voce dolce.
Linda rispose di no.
Ma l’uomo si chinò sul letto verso di lei, e la sua faccia era enorme, terribile;
le corde nere dei suoi capelli toccavano la coperta. ‘No’ disse ancora Linda, ed egli sentì la mano di lei premerlo sempre più forte. ‘No, no!’ Ma l’uomo lo prese per un braccio, e ciò gli fece male.
Gridò.
L’uomo allungò l’altra mano e lo sollevò.
Linda lo teneva sempre e continuava a ripetere: ‘No, no’.
L’uomo disse qualche cosa, rapido e corrucciato, e improvvisamente le mani di lei lo lasciarono.
‘Linda, Linda!’ Egli scalciò, si divincolò; ma l’uomo lo portò attraverso la camera sino all’uscio, che aperse, lo depose sul pavimento chiudendosi l’uscio alle spalle.
Egli si alzò e corse all’uscio.
Sollevandosi sulla punta dei piedi egli poteva giusto raggiungere il grosso paletto di legno.
Lo alzò e spinse; ma l’uscio non voleva aprirsi. ‘Linda!’ gridò.
Essa non rispose.
Si ricordava d’un vasto stanzone, piuttosto oscuro; dentro c’erano delle grandi macchine di legno con dei fili attaccati, e schiere di donne in piedi attorno ad esse, a tessere delle coperte, diceva Linda.
Linda gli ordinò di sedere in un angolo insieme con gli altri ragazzi, mentre essa andava ad aiutare le donne.
Egli giocò a lungo coi piccoli compagni.
Improvvisamente la gente si mise a parlare forte, ed ecco che le donne respingevano Linda, e Linda piangeva.
Essa giunse alla porta, e lui le corse appresso.
Le domandò perché coloro erano montate in collera. ‘So assai io del loro lurido tessuto!’ diceva. ‘Bestiali selvaggi.’ Le domandò cosa voleva dire selvaggi.
Intanto erano giunti a casa, dove trovarono Popé che aspettava sulla porta ed entrò con loro.
Portava una capace zucca piena d’un liquido che somigliava all’acqua; però non era acqua, ma qualche cosa di puzzolente che vi bruciava la bocca e vi costringeva a tossire.
Linda ne bevette e Popé ne bevette e allora Linda rise parecchio e parlò ad alta voce; e poi lei e Popé se ne andarono nell’altra stanza.
Linda era a letto e così profondamente addormentata che non poté svegliarla.  Popé veniva spesso.
Diceva che il liquido che si trovava nella zucca si chiamava “mescal”; ma Linda ribatteva che avrebbe dovuto chiamarsi “soma”; soltanto che, dopo, vi faceva star male.
Egli odiava Popé.
Li odiava tutti, tutti gli uomini che venivano a vedere Linda.
Un pomeriggio che aveva giocato con gli altri ragazzi – faceva freddo, rammentava, e c’era la neve sulle montagne – rientrò in casa e sentì delle voci alterate nella camera da letto.
Erano voci di donne, e dicevano delle parole ch’egli non comprendeva; ma sapeva che erano parole brutte.
Poi, improvvisamente, ciach! qualche cosa si rovesciò; sentì della gente che si muoveva rapidamente, poi ci fu un altro ciach! e poi un rumore come quando si frusta un mulo, però non così secco; poi Linda che urlava: ‘Oh, no, no, no!’.
Egli entrò.
C’erano tre donne avvolte in coperte scure.
Linda stava sul letto.
Una delle donne le stringeva i polsi.
Un’altra era distesa attraverso le sue gambe in modo che non potesse tirar calci.
La terza la colpiva con uno staffile.
Una, due, tre volte; ogni volta Linda urlava.
Piangendo, egli tirò con forza la frangia della coperta della donna. ‘Ve ne prego, ve ne prego.’ Con la mano libera quella lo tenne a distanza.
Lo staffile scese di nuovo, e di nuovo Linda urlò.
Egli afferrò e strinse nelle sue l’enorme mano bruna della donna e la morsicò con tutta la sua forza.
La donna urlò a sua volta, liberò la mano con uno strattone e gli diede una tale spinta ch’egli cadde.
Mentre giaceva disteso per terra, la donna lo colpì tre volte con lo staffile.
Questo gli fece più male d’ogni altra cosa provata precedentemente, come se fosse fuoco.
Lo staffile sibilò di nuovo, discese.
Ma questa volta fu Linda a gridare.
‘Ma perché volevano farti male, Linda?’ domandò lui quella sera.
Piangeva perché i segni rossi dello staffile sulla schiena lo facevano ancora soffrire terribilmente.
Ma piangeva anche perché tutti eran così cattivi e ingiusti e perché egli era soltanto un ragazzo e non poteva nulla contro di loro.
Anche Linda piangeva.
Era adulta, lei, ma non abbastanza grande per lottare contro quelle tre.
Anche per lei non era giusto. ‘Perché volevano farti male, Linda?’ ‘Non lo so.
Come potrei saperlo?’ Era difficile sentire ciò che diceva perché stava coricata bocconi con la faccia contro il cuscino. ‘Dicono che quegli uomini sono i loro uomini’ riprese; e non sembrava affatto che parlasse a lui;
sembrava parlare a qualcuno che fosse dentro di lei.
Un lungo discorso del quale egli non capì nulla; e alla fine essa si mise a piangere più forte di prima.
‘Oh! non piangere, Linda.
Non piangere.’ Si avviticchiò a lei.
Le passò il braccio attorno al collo.
Linda gettò un grido: ‘Oh! attento.
La mia spalla! Oh!’ e lo respinse brutalmente.
La sua testa batté contro il muro. ‘Piccolo idiota!’ esclamò; e poi, improvvisamente, cominciò a percuoterlo.
Pinf, panf…
‘Linda!’ gridava lui. ‘Oh! mamma, no!’ ‘Io non sono tua madre.
Non voglio essere tua madre.’ ‘Ma Linda…
Oh!’ Lo colpì alla guancia.
‘Trasformata in una selvaggia’ diceva ella. ‘Avere dei piccoli, come un animale…
Se non fosse stato per te, sarei potuta andare dall’Ispettore, sarei potuta partire.
Ma non con un bambino.
Sarebbe stata una cosa troppo vergognosa.’ Capì che stava per batterlo di nuovo e alzò il braccio per proteggersi la faccia. ‘Oh! no, Linda, no, te ne prego.’ ‘Piccola bestia!’ Gli abbassò il braccio, la sua faccia rimase scoperta.
‘No, Linda.’ Egli chiuse gli occhi aspettando lo schiaffo.
Ma ella non lo colpì.
Dopo un istante, riaprì gli occhi e vide che lei lo guardava.
Tentò di sorridere.
Improvvisamente, Linda lo circondò con le sue braccia e si mise a baciarlo furiosamente.
Qualche volta, per parecchi giorni, Linda non si alzava neppure.
Rimaneva a letto ed era triste.
Oppure beveva il liquido che Popé portava, faceva delle matte risate e si buttava a dormire.
Talvolta anche si sentiva male.
Spesso si scordava di alzarsi, e non c’era nulla da mangiare all’infuori delle tortine fredde.
Egli si rammentava della prima volta che Linda aveva trovato quei piccoli animaletti nei suoi capelli, come gridava, come gridava!
I momenti più felici erano quando lei gli parlava di quell’altro mondo: ‘E si può davvero girare volando, quando se ne ha voglia?’ ‘Quando se ne ha voglia.’ E lei gli parlava della musica soave che esce da una cassetta e di tutti i giochi piacevoli ai quali si può giocare, e delle cose deliziose da mangiare e da
bere, e della luce che si fa quando si preme un piccolo bottone nel muro, e delle immagini che è possibile capire, sentire e toccare così come si vedono, e d’un’altra cassetta che produce i buoni odori, e delle case rosa, verdi, azzurre, argentee, alte come montagne; e tutti erano felici, e nessuno era mai triste o adirato, e ciascuno apparteneva a tutti gli altri, e delle cassette in cui si poteva vedere e sentire ciò che succede dall’altra parte del mondo, e dei bambini chiusi in graziosi nitidi flaconi – tutto era nitido, niente cattivi
odori, niente sporcizia – e la gente non si sentiva mai sola, ma tutti vivevano insieme allegri e felici come durante le danze estive lì a Malpais, ma molto più felici, e la felicità c’era ogni giorno, ogni giorno…
Egli ascoltava per delle ore.
E talvolta, quando lui e gli altri ragazzi erano stanchi d’aver giocato troppo,
uno dei vecchi del “pueblo” parlava loro, con altre parole, del grande Trasformatore del Mondo, e della lunga lotta tra la Mano Destra e la Mano Sinistra, tra l’Umido e il Secco; di Awonawilona, il quale una notte, pensando, produsse uno spesso nebbione, e da questa nebbia creò poi il mondo; della Madre Terra e del Padre Cielo; di Ahaiyuta e Marsailema, i gemelli della Guerra e del Caso; di Gesù e di Poukong; di Maria e di Etsanatlehi, la donna che ritorna giovane; della Pietra Nera di Laguna e della Grande Aquila e di Nostra Signora di Acoma.
Strane storie, e più meravigliose per lui in quanto erano raccontate con queste altre parole e pertanto non completamente comprese.
Disteso nel suo letto, egli pensava al cielo e a Londra e a Nostra Signora di Acoma e alle file e file di bambini in nitidi flaconi e a Gesù trasvolante e a Linda pure trasvolante e al grande Direttore delle Incubatrici Mondiali e ad Awonawilona.
Molti uomini venivano a vedere Linda.
I monelli cominciavano a segnarla a dito.
Con altre parole strane, essi dicevano che Linda era cattiva; le davano dei nomi che egli non comprendeva, ma che sapeva essere brutti nomi.
Un giorno essi cantarono e ricantarono più volte una canzone su di lei.
Egli scagliò loro delle pietre.
Quelli non rimasero con le mani in mano.
Una pietra appuntita gli tagliò una guancia.
Il sangue non voleva fermarsi; egli in breve ne fu tutto coperto. 
Linda gli insegnò a leggere.
Con un pezzo di carbone disegnava delle immagini sul muro, un animale seduto, un bambino in un flacone; poi scriveva le lettere. ‘Il gatto è sullo stuoino.
Bebé è nel vaso.’ Egli imparava presto e facilmente.
Quando seppe leggere tutte le parole che lei scriveva sul muro, Linda aperse il suo baule di legno e, di sotto quei bizzarri calzoncini rossi che non portava mai, trasse uno smilzo libretto.
Egli l’aveva già visto altre volte. ‘Quando sarai più grande’ Linda aveva detto ‘potrai leggerlo.’ Adesso egli era abbastanza grande.
Ne fu fiero. ‘Ho paura che tu non lo trovi molto eccitante’ disse Linda. ‘Ma è tutto ciò che ho.’ Sospirò. ‘Oh! se tu potessi vedere le belle macchine da leggere che abbiamo a Londra!’ Egli continuò a leggere.
Il condizionamento chimico e batteriologico dell’embrione.
Istruzioni pratiche per i lavoratori Beta dei Depositi d’embrioni.
Gli fu necessario un quarto d’ora soltanto per leggere il titolo.
Gettò il libro sul pavimento. ‘Stupido libro’ disse, e si mise a piangere.
I monelli cantavano sempre la loro orribile canzone su Linda. 
Talvolta, inoltre, si burlavano di lui perché era così stracciato.
Quando strappava i vestiti, Linda non sapeva rammendarli.
In quell’altro mondo, gli diceva, la gente buttava via gli abiti logori e se ne comperava degli altri. ‘Straccione, straccione!’ gli gridavano i monelli. ‘Ma io so leggere’ diceva a se stesso ‘ed essi no.
Essi non sanno nemmeno che cosa significhi leggere.’ Era abbastanza facile, per poco ch’egli concentrasse il suo pensiero sul leggere, fingere che la cosa non lo riguardasse quando quelli si prendevano gioco di lui.
Pregò Linda di dargli di nuovo il libro.
Più i ragazzi lo segnavano a dito e cantavano, più egli leggeva.
Presto fu in grado di leggere benissimo tutte le parole.
Anche le più lunghe.
Ma cosa significavano? Ne chiese a Linda, ma quand’anche lei fosse stata capace di rispondere, ciò non avrebbe reso le cose più chiare.
E generalmente lei non era affatto capace.
‘Che cosa sono i prodotti chimici?’ domandava lui. ‘Oh! delle cose come sali di magnesio, e l’alcool per mantenere i Delta e gli Epsilon piccoli e ritardati, e il carbonato di calcio per le ossa, e tutta questa sorta di cose.’ ‘Ma come li fabbricano i prodotti chimici, Linda? Donde provengono?’ ‘Mah! lo non lo so.
Si prendono nelle bottiglie.
E quando le bottiglie sono vuote, si manda a cercarne delle altre su nel Deposito chimico.
Sono quelli del Deposito chimico che li fabbricano, credo.
Oppure li mandano a prendere allo Stabilimento.
Non lo so.
Non mi sono mai occupata di chimica.
Il mio lavoro è stato sempre attorno agli embrioni.’ Lo stesso era di tutte le altre cose sulle quali egli l’interrogava: Linda sembrava non saperne mai nulla.
Il vecchio del “pueblo” aveva delle risposte assai più precise.
‘La semenza dell’uomo e di tutte le creature, la semenza del sole e la semenza della terra e la semenza del cielo, Awonawilona le ha create tutte, a partire dalla Nebbia dell’Accrescimento.
Ora il mondo ha quattro matrici; ed egli depose le semenze nella più bassa delle quattro matrici.
E gradualmente le semenze cominciarono a svilupparsi…’
Un giorno (John calcolò più tardi che doveva essere poco tempo dopo il suo dodicesimo compleanno) egli rientrò in casa e trovò giacente sul pavimento in camera da letto un libro che non aveva mai visto prima.
Era un grosso libro che sembrava molto antico.
La rilegatura era stata divorata dai sorci, talune pagine staccate e malridotte.
Egli lo raccolse, guardò il frontespizio; il libro era intitolato “Opere complete di William Shakespeare”.
Linda s’era buttata sul letto e sorseggiava da una ciotola quell’orribile e puzzolente “mescal”. 
‘Popé l’ha portato’ disse.
La sua voce era spessa e rauca come la voce di qualcun altro. ‘Era in uno stipo della camera sotterranea di riunione della Kiva degli Indii Antilopi.
Si crede che ci sia da alcune centinaia d’anni.
Dev’essere vero, perché io l’ho guardato e mi sembra pieno di stupidaggini.
Privo di civiltà.
Ad ogni modo, sarà sempre abbastanza buono per esercitarsi a leggere.’
Ingollò un’altra sorsata, pose la ciotola sul pavimento accanto al letto, si voltò dall’altra parte, fece un paio di rutti e s’addormentò.
Egli aperse il libro a caso.
“No, ma vivere nei piaceri impudichi d’un letto insozzato, crogiolandosi nella corruzione, prodigando dolci amorosi baci sopra una bocca impura…”
Le strane parole gli rimbalzarono attraverso lo spirito, vi rombarono come un tuono parlante; come i tamburi delle danze estive, se i tamburi avessero potuto parlare; come gli uomini che cantano la Canzone del Grano, bella, bella da farvi piangere; come il vecchio Mitsima quando pronuncia le formule magiche sulle sue piume e i suoi bastoni intagliati e i suoi frammenti d’osso e di pietra – “Kiathla tsilu silokwe silokwe silokwe.
Kiai silu silu, tsithl” – ma meglio delle formule magiche di Mitsima, perché erano più significative, perché parlavano a lui; parlavano meravigliosamente e solo a metà comprensibili, in formule terribilmente belle, di Linda; di Linda coricata e ronfante, con la ciotola vuota sul pavimento accanto al letto; di Linda e di Popé, di Linda e di Popé.
Egli odiava Popé sempre più.
Un uomo può sorridere e risorridere ed essere uno scellerato.
Senza rimorsi, traditore, svergognato, scellerato, detestabile.
Cosa significavano esattamente queste parole? Lo sapeva soltanto a metà.
Ma la loro suggestione era potente e continuava a rumoreggiare nella sua testa, e fu, senza che sapesse in qual modo, come se realmente non avesse già prima odiato, perché non aveva mai potuto dire sino a qual punto lo odiava.
Ma ora aveva queste parole, queste parole ch’erano simili a tamburi, a canti e a formule magiche.
Queste parole, e la strana, strana storia dalla quale erano state tratte (essa non aveva per lui né coda né testa, ma era tuttavia meravigliosa, meravigliosa), gli offrivano una ragione per odiare Popé; esse rendevano il suo odio più reale; rendevano Popé medesimo più reale.
Un giorno, mentre rientrava dopo aver giocato, la porta della camera di fondo era aperta, ed egli li vide tutti e due coricati sul letto, addormentati: Linda bianca e Popé quasi nero accanto a lei, con un braccio passato sotto le sue spalle e l’altra mano bruna posata sul suo seno, e una treccia dei lunghi capelli dell’uomo, distesa attraverso il petto di lei come un serpente nero che tentasse di strangolarla.
La zucca di Popé giaceva come una tazza sul pavimento vicino al letto.
Linda russava.
Fu come se il suo cuore fosse sparito e avesse lasciato una voragine.
Egli era vuoto.
Vuoto e freddo e quasi malato e stordito.
S’appoggiò al muro per non cadere.
Senza rimorsi, traditore, svergognato…
Come i tamburi, come gli uomini che cantavano alla Festa del Grano, come le formule magiche, le parole si ripetevano nella sua testa.
Dopo la sensazione di freddo, ebbe improvvisamente caldo.
Le sue guance bruciavano sotto l’afflusso del sangue, la camera girava e si oscurava davanti ai suoi occhi.
Strinse i denti. ‘Lo ucciderò, lo ucciderò, lo ucciderò’ egli ripeteva.
E di colpo altre parole ancora vennero.
“Quando egli dormirà ubriaco, o nella sua rabbia, o nel piacere incestuoso del suo letto…”
Le formule magiche erano dalla sua parte, le formule magiche spiegavano e davano degli ordini.
Uscì e tornò nella prima stanza.
‘Quando egli dormirà ubriaco…’ Il coltello della carne era lì sul pavimento accanto al focolare.
Lo raccolse e sulla punta dei piedi si avvicinò all’uscio. ‘Quando egli dormirà ubriaco…’ Di corsa attraversò la stanza e colpì – oh! il sangue – colpì di nuovo mentre Popé si scuoteva di dosso il sonno, alzò la mano per colpire ancora, ma si sentì afferrare e – oh, oh! – torcere il pugno.
Non poteva più muoversi, era preso in trappola, e c’erano i piccoli occhi neri di Popé, vicinissimi, fissi nei suoi.
Distolse lo sguardo.
Due tagli si vedevano nella spalla sinistra di Popé. ‘Oh! guarda il sangue!’
gridava Linda. ‘Guarda il sangue!’ Essa non aveva mai potuto sopportare la vista del sangue.
Popé alzò l’altra mano: per colpirlo, pensava John.
Si irrigidì per ricevere il colpo.
Ma la mano lo prese soltanto sotto il mento e gli voltò la faccia, così che egli fu di nuovo costretto a fissare negli occhi Popé.
Per lungo tempo per ore e ore.
E improvvisamente – egli non poté impedirselo – si mise a piangere.
Popé invece scoppiò in una risata. ‘Va” disse con quell’altre parole indiane.
‘Va’ mio bravo Ahaiyuta.’ Egli corse via nell’altra stanza per nascondere le lacrime.
‘Tu hai quindici anni’ disse il vecchio Mitsima in indiano. ‘Ormai posso insegnarti a lavorare l’argilla.’ Accosciati presso il fiume, lavorarono insieme.
‘Per prima cosa’ disse Mitsima prendendo con le mani un blocco d’argilla umettata ‘facciamo una piccola luna.’ Il vecchio schiacciò il blocco e ne fece un disco, poi ne curvò i bordi; la luna divenne un vaso concavo.
Lento e maldestro egli imitava i gesti delicati del vecchio.
‘Una luna, un vaso e adesso un serpente.’ Mitsima arrotolò un altro frammento d’argilla facendone un lungo cilindro flessibile, lo curvò in un cerchio e l’appoggiò sul bordo della ciotola.
Poi ancora un serpente.
Ancora uno.
Ancora uno.
Cerchio su cerchio Mitsima lavorò ai fianchi del vaso; questo era stretto, poi si gonfiò, e si restrinse di nuovo verso il collo.
Mitsima schiacciò e batté, lisciò e raschiò e finalmente la cosa si definì in forma d’un recipiente d’acqua familiare di Malpais, ma d’un bianco cremoso invece che nero e ancora molle a toccarlo.
Parodia deforme di quello di Mitsima, il suo si ergeva lì presso.
Guardando i due recipienti, egli fu costretto a ridere.
‘Ma il prossimo sarà migliore’ disse: e si mise a umettare un altro blocco d’argilla.
Modellare, dare la forma, sentire le proprie dita acquisire agilità e potere: ciò gli dava un piacere straordinario. ‘A, B, C, Vitamina D’ egli cantarellava tra sé lavorando. ‘Lo iodio è nel fegato, il merluzzo è nel mare.’ E anche Mitsima cantava: una canzone sull’uccisione di un orso.
Lavorarono tutto il giorno, e per tutto il giorno egli fu pieno d’una intensa, assorbente felicità.
‘Quest’inverno’ disse il vecchio Mitsima ‘ti insegnerò a maneggiare l’arco.’
Rimase a lungo ritto davanti alla casa; e finalmente le cerimonie all’interno finirono.
La porta si aperse; essi uscirono.
Kothlu veniva per primo, con la mano destra rivoltata e ben chiusa come se dentro vi fosse qualche prezioso gioiello.
Con la mano tesa e ugualmente serrata, Kiakimé lo seguiva.
Camminavano in silenzio, e in silenzio, dietro di loro, venivano i fratelli, le sorelle, i cugini e tutta la turba dei vecchi.
Uscirono dal “pueblo”, attraverso la mesa.
Al bordo dello strapiombo si fermarono, di fronte al giovane sole levante.
Kothlu aperse la mano.
Una manciata di farina di frumento si stendeva bianca sulla sua palma; egli vi soffiò sopra, mormorò poche parole poi la lanciò, pugno di polvere bianca, verso il sole.
Kiakimé fece lo stesso.
Allora il padre di Kiakimé s’avanzò e, brandendo un bastone rituale ornato di piume, pronunciò una lunga preghiera, e poi lanciò il bastone dietro la farina di frumento.
‘E’ fatto’ disse il vecchio Mitsima ad alta voce. ‘Sono maritati.’ ‘Bene’ disse Linda mentre ritornavano ‘tutto ciò che posso dire è che sembra facciano un gran can-can per assai poca cosa.
Nei paesi civili, quando un giovanotto vuol avere una ragazza, egli appunto…
Ma dove vai, John?’ Egli non prestò attenzione al suo richiamo, ma corse via, via, via, non importa dove, pur di esser solo.
Era fatto.
Le parole del vecchio Mitsima si ripetevano nel suo spirito.
Fatto, fatto.
In silenzio, e da molto lontano, ma violentemente, disperatamente, senza speranza, egli aveva amato Kiakimé.
Ed ora era finito.
Egli aveva sedici anni.
Quando fu la luna piena, nella Kiva degli Indii Antilopi, dei segreti stavano per esser detti, dei segreti stavano per essere compiuti e sostenuti.
Sarebbero discesi nella Kiva ancora ragazzi e ne sarebbero usciti uomini.
I ragazzi erano pieni di timore e nello stesso tempo impazienti…
Finalmente il gran giorno giunse.
Il sole si coricò, la luna sorse.
Egli si recò con gli altri.
Degli uomini si tenevano ritti, con aria misteriosa, presso l’ingresso della Kiva; la scala s’ingolfava nelle profondità dai rossi riflessi.
Già i ragazzi capofila avevano cominciato a discendere.
Improvvisamente uno degli uomini si fece avanti, l’afferrò per un braccio e lo trasse fuori della fila.
Egli gli sfuggì e scivolò al suo posto, tra gli altri.
Stavolta l’uomo lo batté, gli tirò i capelli: ‘Non per te, pelo bianco!’. ‘Non per il figlio della cagna’ disse un altro uomo.
I ragazzi risero. ‘Vattene!’ gridarono di nuovo gli uomini.
Uno di essi si chinò, raccattò una pietra e la scagliò. ‘Vattene, vattene,
vattene!’ Ci fu una grandine di pietre.
Sanguinando egli fuggì nelle tenebre.
Dalla Kiva illuminata di rosso veniva un clamore di canti.
L’ultimo ragazzo era arrivato in fondo alla scala.
John era completamente solo.
Completamente solo, fuori dal “pueblo”, sul nudo pianoro della mesa.
La roccia era simile a ossame calcinato sotto la luce lunare.
Giù nella valle i lupi delle praterie latravano alla luna.
Le contusioni gli dolevano, le ferite sanguinavano ancora; non era tuttavia per il dolore ch’egli singhiozzava, ma perché era completamente solo, perché era stato cacciato, tutto solo, in questo mondo sepolcrale di rocce e di luce lunare.
All’orlo dell’abisso sedette.
La luna stava dietro a lui; egli guardò nell’ombra nera della mesa, nell’ombra nera della morte.
Aveva soltanto da fare un passo, un piccolo salto…
Stese la mano destra verso il chiaro di luna.
Dalla ferita al polso il sangue stillava ancora.
A intervalli di qualche secondo una goccia cadeva, scura, quasi senza colore nella morta luce.
Una goccia, una goccia, una goccia. Domani e domani e domani…
Egli aveva scoperto il Tempo, la Morte e Dio.
Solo, sempre solo diceva il giovane.
Queste parole risvegliarono un’eco dolorosa nello spirito di Bernardo.
Solo, solo…
Anch’io disse in uno slancio di confidenza.
Terribilmente solo.
Anche voi? John lo guardava sorpreso.
Io credevo che nel vostro mondo…
Voglio dire, Linda afferma sempre che laggiù nessuno era mai solo.
Bernardo arrossì imbarazzato: Vedete disse imbrogliandosi e voltando via gli   occhi io sono un po’ diverso dalla maggioranza, se non erro.
Se uno si trova ad esser stato travasato differentemente…
Già, ecco il giovane fece un cenno di approvazione.
Se uno è diverso, è fatale che sia solo.
Si è trattati in modo bestiale.
Sapete che mi hanno sempre assolutamente escluso da ogni cosa? Quando gli altri ragazzi andavano a passare la notte sulle montagne – sapete, quando si deve sognare qual è il vostro animale sacro – non hanno mai voluto concedermi d’andare con loro; non hanno mai voluto dirmi nessun segreto.
Tuttavia io l’ho fatto da solo soggiunse.
Sono rimasto senza mangiare per cinque giorni, e poi una notte me ne sono andato da solo sulle montagne, lassù.
Indicò con un dito.
Bernardo sorrise con indulgenza.
E avete sognato qualche cosa? domandò.
L’altro fece cenno di sì.
Ma non posso dirvelo.
Rimase silenzioso un poco; poi riprese a bassa voce: Una volta ho fatto una cosa che gli altri non avevano mai fatta, sono rimasto in piedi ritto contro una roccia, nel bel mezzo del giorno d’estate, con le braccia distese, come Gesù sulla croce.
Perché, diamine? Volevo sapere ciò che vuol dire essere crocefisso.
Sospeso là sotto il sole…
Ma perché? Perché? Eh…
Esitava.
Perché sentivo di doverlo fare. Se Gesù ha potuto sopportarlo…
E poi, se uno ha fatto qualche cosa di male…
E poi, ero infelice; questa era un’altra ragione.
Mi sembra una strana maniera di guarire la vostra infelicità disse Bernardo.
Ma una successiva riflessione lo persuase che, dopo tutto, ciò poteva avere anche un senso.
Più che prendere del “soma”…
Sono svenuto dopo un certo tempo continuò il giovane.
Sono caduto bocconi.
Vedete il segno dove mi sono ferito? Sollevò lo spesso ciuffo giallo sulla fronte.
La cicatrice era visibile, pallida e increspata, sulla tempia destra.
Bernardo guardò, poi bruscamente, con un piccolo brivido, distolse gli occhi.
Il suo condizionamento lo aveva reso non tanto disposto alla pietà quanto esageratamente delicato.
La semplice allusione alle malattie o alle ferite era per lui non soltanto orripilante, ma anche ripugnante e piuttosto disgustosa.
Come la sporcizia o la deformità o la vecchiaia.
Si affrettò a cambiar discorso.
Vorrei sapere se vi piacerebbe ritornare a Londra con noi domandò effettuando la prima mossa di una campagna della quale aveva cominciato a elaborare in segreto il piano strategico dal momento in cui, nella piccola casa, aveva intuito chi doveva essere il ‘padre’ del giovane selvaggio.
Vi piacerebbe? Il volto del giovane s’illuminò: Parlate sul serio?.
Certo; se posso ottenere il permesso, naturalmente.
Anche Linda? Già…
Esitò incerto.
Quella creatura ripugnante! No, era impossibile.
A meno che, a meno che…
Venne in mente d’improvviso a Bernardo che il fatto stesso che colei fosse sì ripugnante, costituiva una carta formidabile.
Ma certo! gridò, compensando le esitazioni di prima con un eccesso di cordialità rumorosa.
Il giovane sospirò profondamente.
Pensare che ciò si realizza… ciò di cui ho sognato tutta la mia vita.
Vi ricordate ciò che disse Miranda? Chi è Miranda? Ma il giovane non aveva evidentemente intesa la domanda: O meraviglia! diceva; e i suoi occhi brillavano, il suo viso era tutto illuminato.
Quante soavi creature ci sono qui! Come l’umanità è bella! Il suo rossore s’accentuò improvvisamente, pensando a Lenina, a quell’angelo in viscosa verde-bottiglia, splendente di giovinezza e di vitalità, grassottella, sorridente con gentilezza.
Gli tremò la voce.
O nuovo mondo ammirevole! cominciò; poi improvvisamente s’interruppe; il sangue aveva abbandonato le sue gote, era pallido come un foglio di carta.
Siete sposato con lei? domandò.
Sono cosa? Sposato.
Sapete, per sempre.
Si dice ‘per sempre’, nel linguaggio degli Indii, una cosa che non si può rompere.
Ford, no! Bernardo non poté trattenere una risata.
Anche John rise, ma per un’altra ragione: rise di pura gioia.
O nuovo mondo ammirevole! ripeté.
O nuovo mondo ammirevole che contieni simile gente! Partiamo subito.
Avete un modo ben curioso di parlare, talvolta disse Bernardo squadrando il giovane con stupore perplesso.
E intanto, non fareste meglio ad aspettare d’averlo veduto, il nuovo mondo?

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