Il Mondo Nuovo

di Aldous Huxley

Capitolo XVIII

 

 

La porta era socchiusa; entrarono.
John! Dalla stanza da bagno giunse un rumore sgradevole e caratteristico.
C’è qualche cosa che non va? domandò Helmholtz.
Non ricevettero risposta.
Il rumore sgradevole si ripeté due volte; poi, silenzio.
Infine, con uno scatto, l’uscio della stanza da bagno si aprì e, pallidissimo, il
Selvaggio apparve.
Ehi, dico, esclamò Helmholtz premuroso mi sembrate sofferente, John! Avete
mangiato qualche cosa che v’ha fatto male? indagò Bernardo.
Il Selvaggio fece cenno di sì.
Ho mangiato la civiltà.
Cosa? Mi ha avvelenato; ero insudiciato.
E poi aggiunse con tono più basso ho mangiato il mio proprio peccato.
Sì, ma, insomma, che cosa esattamente…
Voglio dire, adesso voi…
Adesso sono purificato affermò il Selvaggio.
Ho bevuto della senape e dell’acqua calda.
Gli altri lo guardarono stupiti.
Volete dire che l’avete fatto di proposito? domandò Bernardo.
E’ così che gli Indiani si purificano sempre.
Sedette e, sospirando, si passò la mano sulla fronte.
Voglio riposare qualche minuto disse sono un po’ stanco.
Già, non mi sorprende fece Helmholtz.
E dopo una pausa riprese in un altro tono: Veniamo a dirvi addio.
Partiamo domattina.
Sì, partiamo domattina disse Bernardo, nel volto del quale il Selvaggio notò
un’espressione nuova di ferma rassegnazione.
E a proposito, John continuò sporgendosi innanzi sulla sedia e posando una
mano sul ginocchio del Selvaggio vorrei dirvi quanto sono spiacente di ciò
che è accaduto ieri.
Arrossì.
E come mi vergogno riprese nonostante l’incertezza della sua voce come in
verità…
Il Selvaggio lo interruppe e, prendendogli la mano, la strinse
affettuosamente.
Helmholtz è stato molto buono con me riprese Bernardo dopo una breve
pausa.
Se non fosse stato per lui, io avrei…
Via, via protestò Helmholtz.
Ci fu un silenzio.
Nonostante la loro tristezza – a causa d’essa, anzi, perché la loro tristezza
era il sintomo del loro affetto scambievole – i tre giovani erano contenti.
Sono andato a vedere il Governatore stamattina disse il Selvaggio
finalmente.
Perché? Per domandargli se non potrei venire alle isole con voi.
E cosa ha detto? domandò Helmholtz avidamente.
Il Selvaggio scosse la testa.
Non ha voluto permetterlo.
Perché no? Ha detto che vuole continuare l’esperienza.
Ma ch’io mi danni aggiunse il Selvaggio con improvviso furore ch’io mi danni
se continuo a prestarmi alle loro esperienze.
No, per tutti i Governatori del Mondo.
Anch’io me ne andrò domani.
Ma dove? chiesero gli altri insieme.Il Selvaggio alzò le spalle.
In un posto qualunque.
Non ha importanza.
Purché possa essere solo.
Da Guildford la linea discendente seguiva la vallata della Wey fino a
Godalming, poi su Milford e Witley, proseguiva verso Haslemere e per
Petersheld verso Portsmouth.
Parallela all’ingrosso a questa, la linea ascendente passava su Worplesdon,
Tongham, Puttenham, Elstead e Grayshott.
Tra Hog’s Back e Hindhead c’erano dei punti ove le due linee non erano
distanti più di sei o sette chilometri.
Questa distanza era troppo piccola per gli aviatori negligenti, specialmente la
notte e quando avevano ingerito un mezzo grammo di troppo.
C’erano stati degli incidenti, alcuni seri.
Era stato deciso di deviare la linea ascendente di qualche chilometro verso
ovest.
Tra Grayshott e Tongham quattro fari aerei abbandonati segnavano il
tracciato della vecchia strada da Portsmouth a Londra.
I cieli al di sopra di essi erano silenziosi e deserti.
Era sopra Selborne, Borden e Farnham che gli elicotteri ora incessantemente
rombavano e ruggivano.
Il Selvaggio s’era scelto come ritiro il vecchio faro che s’innalzava sulla cresta
della collina tra Puttenham e Elstead.
L’edificio era di cemento armato e in ottime condizioni: quasi troppo
confortevole, aveva pensato il Selvaggio quando per la prima volta aveva
esplorato il posto, quasi troppo lussuosamente civilizzato.
Acquietò la sua coscienza promettendosi in compenso una disciplina
personale più rigorosa, delle purificazioni tanto più complete e perfette.
La sua prima notte nell’eremitaggio fu, deliberatamente, insonne.
Egli passò le ore in ginocchio pregando ora il Cielo dal quale il colpevole
Claudio aveva implorato il perdono, ora, in lingua Zui, Awonawilona, ora
Gesù e Poukong, ora il proprio animale custode, l’aquila.
Di tanto in tanto stendeva le braccia come se fosse in croce e le teneva così
per lunghi minuti in una sofferenza che cresceva gradatamente sino a
diventare tortura parossistica fremente; le teneva così, in crocifissione
volontaria, mentre ripeteva tra i denti chiusi (e intanto il sudore gli scorreva
lungo la faccia): Oh, perdonatemi! Oh, purificatemi! aiutatemi a essere
virtuoso! più e più volte, finché fu sul punto di svenire dal dolore.
Quando giunse il mattino, egli sentì d’aver guadagnato il diritto d’abitare il
faro; sì, benché ci fossero ancora i vetri alla maggior parte delle finestre,
benché la vista dalla piattaforma fosse così bella.
Perché la ragione stessa per la quale egli aveva scelto il faro era diventata
quasi immediatamente una ragione per andare altrove.
Aveva deciso di vivere lì perché la vista era così bella, perché da quel punto
dominante gli pareva di contemplare da lungi l’incarnazione di una realtà
divina.
Ma chi era egli per essere colmato con lo spettacolo quotidiano della
bellezza? Chi era per vivere nella presenza visibile di Dio? Tutt’al più egli
meritava di vivere in qualche sordida capanna, in qualche oscura caverna
sotterranea.
Ancora curvo e dolorante dopo la sua lunga notte di tortura, ma appunto per
questa ragione internamente rassicurato, s’arrampicò sulla piattaforma della
sua torre, contemplò dall’alto il luminoso mondo mattutino ch’egli aveva di
nuovo il diritto di abitare.
A nord la vista era limitata dalla lunga cresta calcarea di Hog’s Back, dietro la
cui estremità orientale si innalzavano le torri di sette grattacieli che
costituivano Guildford.
Vedendole, il Selvaggio fece una smorfia, ma doveva giungere a riconciliarsi
con esse coll’andar del tempo; perché di notte scintillavano gaiamente in
costellazioni geometriche, oppure, violentemente rischiarate, puntavano le
loro dita luminose (con un gesto il cui significato nessuno in Inghilterra
eccetto il Selvaggio ora comprendeva) solennemente verso i misteri
insondabili del cielo.
Nella valle che separava Hog’s Back dalla collina sabbiosa sulla quale
s’innalzava il faro, Puttenham era un modesto, piccolo villaggio, alto nove
piani, con dei silos, un allevamento di galline e una piccola fabbrica di
vitamina D. Dall’altra parte del faro, verso sud, il terreno discendeva in lunghi
pendii di brughiera fino a una successione di stagni.
Al di là, sopra i boschi intermedi, si alzava la torre a quattordici piani di
Elstead.
Annebbiati sul fondo brumoso dell’atmosfera inglese, Hindhead e Selborne
allettavano l’occhio verso una romantica lontananza azzurra.
Ma non era soltanto la lontananza che aveva attirato il Selvaggio al faro; i
dintorni erano seducenti come la lontananza.
I boschi, le aperte distese dell’erica e della ginestra gialla, i gruppi di pini di
Scozia, gli stagni lucenti, con le loro betulle che vi si chinavano, le loro
ninfee, i loro letti di canne, ciò era stupendo e, per occhio abituato alle aridità
del deserto americano, meraviglioso.
E poi, la solitudine! Intere giornate trascorsero, durante le quali egli non vide
essere umano.
Il faro era soltanto a un quarto d’ora di volo dalla Torre di Charing-T, ma le
montagne di Malpais erano poco più deserte di questa landa del Surrey.
Le folle che abbandonavano ogni giorno Londra l’abbandonavano soltanto
per giocare al Golf elettromagnetico o a tennis.
Puttenham non possedeva terreni da golf; le superfici-Riemann più vicine
erano a Guildford.
I fiori e il paesaggio restavano qui le sole attrattive.
Così, non essendovi nessuna buona ragione di venirvi, nessuno ci veniva.
Durante i primi giorni il Selvaggio visse solo e indisturbato.
Del denaro che, appena arrivato, John aveva ricevuto per le sue spese
personali, la maggior parte se n’era andata per l’equipaggiamento.
Prima di lasciare Londra egli aveva acquistato quattro coperte di lana
viscosa, corda e spago, chiodi, colla, qualche utensile, fiammiferi (benché
egli avesse intenzione di fabbricarsi in seguito un accenditore automatico),
qualche pentola e tegame, due dozzine di pacchetti di semi e dieci
chilogrammi di farina di frumento. ‘No, non surrogato di farina d’amido
sintetico e di cascami di cotone’ aveva insistito. ‘Anche se fosse più
nutriente.’ Ma quando si trattò dei biscotti panglandulari e di surrogato di bue
vitaminizzato non aveva potuto resistere alla loquela persuasiva del
bottegaio.
Adesso, contemplando le scatole di latta, si rimproverava amaramente la sua
debolezza.
Odiosa robaccia civile! Aveva deciso di non mangiarne mai anche se
dovesse morire di fame. ‘Così impareranno’ pensò, desideroso di vendetta.
Ma avrebbe imparato anche lui.
Contò il suo denaro.
Il poco che gliene rimaneva sarebbe bastato, sperava, a permettergli di
passar l’inverno.
Con la prossima primavera il suo giardino avrebbe prodotto il necessario per
renderlo indipendente dal mondo esterno.
Nel frattempo ci sarebbe pur sempre la selvaggina.
Aveva visto una quantità di lepri, e c’erano degli uccelli acquatici negli stagni.
Si mise all’opera immediatamente per fare un arco e delle frecce.
C’erano dei frassini presso il faro, e, per il legno delle frecce, tutto un bosco
ceduo di avellani meravigliosamente diritti.
Cominciò con l’abbattere un giovane frassino.
Tagliò due metri di tronco senza rami, lo scorticò, e, fibra per fibra, levò tutto
il legno bianco come gli aveva insegnato il vecchio Mitsima, fin che ebbe una
doga quasi della sua statura, rigida nel suo centro più spesso, nervosa e
vibrante alle estremità esili.
Il lavoro gli diede un intenso piacere.
Dopo qualche settimana d’ozio a Londra, con niente altro da fare ogni volta
che desiderava qualche cosa, se non spingere un commutatore o girare una
manopola, era una pura delizia trovarsi a fare qualcosa che esigeva abilità e
pazienza.
Aveva quasi finito di tagliare la doga nella sua forma, quando s’avvide con un
sussulto che cantava: cantava! Fu come se, cadendo per caso dall’esterno
su se stesso, si fosse d’improvviso tradito, si fosse colto in errore flagrante.
Arrossì come un colpevole.
In fin dei conti non era per cantare e per divertirsi che era venuto lì.
Era per sfuggire la contaminazione invadente del sudiciume della vita civile;
era per essere purificato e fatto virtuoso; era per diventare migliore con
l’attività.
Si rese conto con costernazione che, assorto nel tagliarsi l’arco, aveva
dimenticato ciò di cui aveva giurato a se stesso di ricordarsi costantemente:
la povera Linda e la sua durezza assassina verso di lei, e quegli odiosi
gemelli formicolanti come pidocchi sul mistero della sua morte, insultanti, con
la loro presenza, non solo il suo dolore e il suo pentimento, ma anche gli
stessi Dei.
Aveva giurato di ricordare, aveva giurato incessantemente di fare ammenda.
Ed eccolo qui, seduto a lavorare alla doga dell’arco, cantando, proprio
cantando…
Tornò dentro, aprì la scatola della senape e mise dell’acqua a bollire sul
fuoco.
Mezz’ora dopo tre lavoratori agricoli Delta Minus d’uno dei gruppi
Bokanovsky di Puttenham, che si recavano in autocarro ad Elstead, quando
furono sulla sommità della collina rimasero di stucco nel vedere, ritto davanti
al faro abbandonato, un giovanotto, ch’era nudo sino alla cintola e che si
flagellava con una frusta di corde a nodi.
Il suo dorso era rigato orizzontalmente di rosso, e da ciascuna delle striature
alla susseguente colavano dei sottili fili di sangue.
Il conducente dell’autocarro si fermò sul bordo della strada, e coi suoi due
compagni contemplò con tanto d’occhi quello spettacolo straordinario.
Uno, due, tre… contarono i colpi.
Dopo l’ottavo il giovane interruppe l’autocastigo per correre al limitare del
bosco e vomitarvi violentemente.
Quand’ebbe finito, riprese la frusta e ricominciò a colpirsi.
Nove, dieci, undici, dodici…
Ford! mormorò il conducente.
E i suoi gemelli erano della sua opinione.
Fordey! dissero essi.
Tre giorni dopo, come degli avvoltoi che si gettano sopra un cadavere,
arrivarono i cronisti.
Asciutto e indurito sopra un fuoco di legna verde, l’arco era pronto.
Il Selvaggio era intento a preparare le frecce.
Trenta asticciole d’avellano erano state tagliate e seccate, munite di chiodi
aguzzi e incoccate con cura.
Egli aveva fatto una spedizione notturna nell’allevamento di pollame di
Puttenham ed ora disponeva di piume in quantità sufficiente per
equipaggiare tutta un’armeria.
Fu al lavoro, mentre ornava di piume i suoi strali, che lo trovò il primo
cronista.
Senza far rumore, con le sue scarpe pneumatiche, l’individuo gli giunse alle
spalle.
Buongiorno, signor Selvaggio disse.
Io sono l’inviato del ‘RadioOrario’.
Sobbalzando come per il morso d’un serpente, il Selvaggio saltò in piedi,
sparpagliando frecce, piume, vasetto della colla e pennello in tutte le
direzioni.
Vi chiedo scusa disse il cronista con sincera compunzione.
Non avevo l’intenzione…
Si toccò il cappello: il tubo da stufa di alluminio nel quale portava il suo
ricevitore trasmettitore radio.
Scusate se non me lo tolgo disse.
E’ un po’ pesante.
Dunque, come dicevo, io sono l’inviato del ‘Radio…’.
Che cosa volete? domandò il Selvaggio guardandolo male.
Il giornalista gli rispose col migliore dei suoi sorrisi.
Già, naturalmente, i nostri lettori si interesserebbero moltissimo…
Piegò la testa da una parte, il suo sorriso divenne quasi civettuolo.
Semplicemente qualche vostra parola, signor Selvaggio.
E rapidamente, con una serie di gesti rituali, svolse due fili metallici collegati
alla batteria portatile affibbiata alla sua cintura; li infisse simultaneamente
nelle pareti del suo cappello d’alluminio; toccò una molla sul fondo, e delle
antenne si rizzarono nell’aria; toccò un’altra molla al margine della falda e,
come un diavolo da una scatola-sorpresa, ne balzò un microfono e rimase lì
sospeso, volteggiando a quindici centimetri dal suo naso; si tirò due ricevitori
sulle orecchie; premette un commutatore sul lato sinistro del cappello, e
dall’interno giunse un lieve ronzio di vespa; girò un bottone a destra, e il
ronzio fu interrotto da un fischio e da un crepitio stetoscopico, con singhiozzi
e improvvisi grugniti.
Allò disse quegli al microfono allò, allò….
Tosto un campanello squillò nell’interno della tuba.
Siete voi, Edzel? Parla Primo Mellon.
Sì, l’ho trovato.
Il signor Selvaggio adesso prenderà il microfono e dirà qualche parola.
Non è vero, signor Selvaggio? Rivolse al Selvaggio un altro di quei suoi
melliflui sorrisi.
Vogliate dire ai nostri lettori perché siete venuto qui.
Che cosa vi ha fatto lasciare Londra (non interrompete, Edzel!) così
bruscamente.
E, si capisce, parlate della frusta.
Il Selvaggio sussultò.
Come mai sapevano della frusta? Siamo tutti ansiosi di sapere della frusta.
E poi dite qualche cosa della Civiltà.
Sapete bene, roba di questo genere: ‘Ciò che io penso della razza civilizzata’.
Proprio poche parole, pochissime…
Il Selvaggio obbedì alla lettera in maniera sconcertante.
Pronunciò cinque parole, non di più.
Cinque parole, le stesse che aveva detto a Bernardo sull’Arcicantore di
Canterbury. “Hàni! Sons éso tse-na!” E, afferrato il giornalista per le spalle, lo
fece girare (il giovanotto si rivelò calibrato alla perfezione), mirò, e con tutta
la precisione e la forza del piede d’un campione di calcio gli lasciò andare
una pedata veramente prodigiosa.
Otto minuti dopo, una nuova edizione del ‘Radio-Orario’ era in vendita nelle
vie di Londra.
‘Un cronista del ‘Radio-Orario’ riceve un calcio nel coccige dal misterioso
Selvaggio’ diceva un richiamo in testa di pagina.
‘Sensazione nel Surrey.’ ‘Sensazione anche a Londra’ pensò il cronista,
quando, al suo ritorno, lesse quelle parole. ‘E una sensazione veramente
dolorosa, quel che conta di più.’ Si sedette con cautela per far colazione.
Senza arrestarsi per questa preventiva contusione al coccige del loro
collega, quattro altri cronisti, inviati dal ‘Times’ di New York, dal ‘Continuum a
quattro dimensioni’ di Francoforte, dal ‘Monitore della Scienza Fordiana’ e dal
‘Delta Mirror’, si recarono nel pomeriggio al faro e vi furono ricevuti con una
violenza progressivamente crescente.
Da una distanza sufficiente e stropicciandosi ancora le natiche, l’inviato del
‘Monitore della Scienza Fordiana’ gridò: Imbecille, ignorante, perché non
prendete del “soma”?…
Andatevene! Il Selvaggio gli mostrò il pugno.
L’altro indietreggiò di qualche passo, poi si voltò di nuovo.
Il male è una cosa irreale se ne prendete due grammi. “Kohakwa iyathokyai!”
Il tono era ironico e minaccioso.
Il dolore è una delusione.
Oh, è così? disse il Selvaggio e, raccogliendo una grossa verga di avellano si
fece avanti.
L’inviato del ‘Monitore della Scienza Fordiana’ balzò senz’altro nel suo
elicottero.
Dopo di che il Selvaggio fu lasciato per qualche tempo in pace.
Qualche elicottero venne a volteggiare curioso attorno alla torre.
Egli scoccò una freccia contro l’importuno che si avvicinò di più.
La freccia trapassò il pavimento di alluminio della cabina; ci fu un urlo acuto,
e l’apparecchio fece in aria un balzo, con tutta l’accelerazione che gli permise
il suo supercarico.
Gli altri, in seguito, si tennero a rispettosa distanza.
Disprezzando il loro fastidioso ronzio (egli si paragonò nella sua
immaginazione a uno degli spasimanti della Vergine di Matsaki, impassibile e
ostinato in mezzo alla verminaia alata), il Selvaggio zappava quel che
doveva essere il suo giardino.
Dopo un certo tempo la verminaia, evidentemente stanca, se ne volava via;
per ore di seguito il cielo sopra la sua testa rimaneva vuoto e, se non ci
fossero state le allodole, silenzioso.
L’atmosfera era calda e pesante, il tuono brontolava nell’aria.
Egli aveva zappato durante tutta la mattina e ora si riposava, disteso sul
pavimento.
E d’improvviso il pensiero di Lenina fu una presenza reale, nuda e tangibile
che diceva ‘Amore’ e ‘Circondami con le tue braccia!’, solo vestita delle calze
e delle scarpette, profumata.
Impudente cortigiana! Ma oh! oh! le sue braccia attorno al collo, l’ansito dei
suoi seni, la sua bocca! ‘L’eternità era nelle nostre labbra e nei nostri occhi,
Lenina…’ No, no, no, no! Fu d’un balzo in piedi e, mezzo nudo com’era, uscì
di corsa dalla casa.
Al limite della landa c’era una macchia di cespugli di ginepri bianchi.
Egli vi si gettò, abbracciò, non il corpo levigato dei suoi desideri, ma un
ammasso di spini verdi.
Acuti, essi lo trafissero con le loro mille punte.
Egli cercò di pensare alla povera Linda, ansimante e muta, con quelle sue
mani che facevano il gesto d’aggrapparsi a qualche cosa e gli occhi pieni di
terrore inesprimibile.
Povera Linda, della quale aveva giurato di ricordarsi.
Ma era pur sempre la presenza di Lenina che l’ossessionava.
Lenina, della quale egli aveva promesso di dimenticarsi.
Anche sotto i colpi e le punture degli spini di ginepro, la sua carne fremente
aveva coscienza di lei, inevitabilmente reale.
‘Amore, amore…
E se anche tu mi volevi, perché non…’ Il frustino era appeso a un chiodo
presso la porta, a portata di mano, nel caso che arrivassero dei giornalisti.
Fu una frenesia.
Il Selvaggio ritornò correndo in casa, lo prese, lo fece roteare.
Le corde a nodi gli sferzarono le carni.
Cortigiana! Cortigiana! gridava a ogni colpo come se fosse Lenina (e con
quale delirio, senza saperlo, desiderava che fosse!), quella bianca, tiepida,
profumata, infame Lenina, ch’egli flagellava così.
Cortigiana! E poi con voce di disperazione: O Linda, perdonami.
Perdonami, Dio.
Io non sono vile.
Sono miserabile.
Sono…
No, tu Cortigiana, tu Cortigiana! Dal suo nascondiglio apprestato con cura nel
bosco a trecento metri di distanza, Darwin Bonaparte, il più esperto fotografo
di belve della Compagnia dei film odorosi, aveva seguito tutti gli avvenimenti.
La pazienza e l’abilità erano state ricompensate.
Egli aveva passato tre giorni raggomitolato nel tronco cavo di una quercia
artificiale, tre notti strisciando sul ventre attraverso la brughiera a nascondere
dei microfoni nei cespugli di ginestre, a seppellire dei fili nella sabbia grigia e
molle.
Settantadue ore di profondo sconforto.
Ma adesso il grande momento era giunto – il più grande, Darwin Bonaparte
ebbe il tempo di riflettere, mentre si muoveva tra i suoi strumenti – il più
grande dopo la presa del famoso Sonoro integrale stereoscopico odoroso
delle nozze dei gorilla.
‘Straordinario’ disse tra sé mentre il Selvaggio iniziava la sua mirabolante
rappresentazione. ‘Straordinario!’ Tenne i suoi apparecchi stereoscopici
diretti con cura, e, per così dire, incollati sul loro mobile oggetto, mise un
obiettivo più potente per ottenere un finale del viso disperato e sconvolto
(stupendo!), girò per mezzo minuto col rallentatore (un effetto
irresistibilmente comico, si ripromise), e ascoltò nel frattempo, coi ricevitori, i
colpi, i gemiti, le parole feroci e pazzesche che venivano registrate sulla
fascia sonora a fianco del film; tentò l’effetto d’una leggera amplificazione (sì,
era davvero meglio); fu felice di sentire, in un momento simile, il trillo di
un’allodola; avrebbe voluto che il Selvaggio si rivoltasse in modo da poter
ottenere un buon finale del sangue che gli rigava la schiena, e quasi
immediatamente (che fortuna stupefacente!) quel bravo ragazzo s’era proprio
voltato sì che egli aveva potuto prendere un finale perfetto.
‘Davvero grande! si disse quando tutto fu terminato. ‘Grandissimo!’ Si
asciugò il viso.
Dopo che allo studio avessero introdotto gli effetti dell’odoroso, sarebbe stato
un film formidabile. ‘Quasi perfetto’ pensò Darwin Bonaparte ‘come la ‘Vita
amorosa della balena maschio’; e questo – per Ford! – era come dire un
avvenimento memorabile.
Dodici giorni più tardi ‘Il Selvaggio del Surrey’ era proiettato e si poteva
vedere, ascoltare e odorare in tutti i cinema odorosi di prim’ordine dell’Europa
occidentale.
L’effetto del film di Darwin Bonaparte fu immediato ed enorme.
Nel pomeriggio che seguì la serata della prima rappresentazione, la
solitudine rustica di John fu improvvisamente rotta dall’arrivo aereo di un
grande stormo di elicotteri.
Egli stava vangando nel giardino, e vangava insieme nel suo spirito,
riportando laboriosamente alla superficie la sostanza dei suoi pensieri.
La morte… e affondava la sua vanga una volta e poi un’altra, e ancora e
ancora.
E tutti i nostri giorni passati han rischiarato agli stolti il cammino polveroso
della morte.
Un tuono d’approvazione rombava attraverso queste parole.
Sollevò ancora una palata di terra.
Perché Linda era morta? Perché avevano permesso che essa diventasse
gradatamente meno che umana e finalmente…
Fremette.
‘Una carogna buona da baciare’ (21).
Puntò il piede sulla vanga e la conficcò fieramente nel terreno duro. ‘Ciò che
sono le mosche per i bambini crudeli siamo noi per gli Dei; essi ci uccidono
per il loro divertimento’ (22).
Un nuovo tono; parole che si proclamavano vere, più vere in un certo senso
della loro stessa verità.
Eppure quello stesso Gloucester aveva chiamato gli Dei sempre amabili.
‘D’altra parte il meglio del suo riposo è il sonno, e tu te lo procuri spesso da
te; tuttavia temi, hai una paura folle della morte, che non è niente di più’ (23).
Niente di più del sonno.
Dormire.
Sognare forse.
La vanga urtò contro un sasso; egli si chinò per raccoglierlo.
E poi in questo sonno della morte, quali sogni?…
Un ronzio sopra la sua testa era diventato un rombo; e improvvisamente ci fu
nell’ombra qualche cosa tra il sole e lui.
Egli guardò in alto, sobbalzò fuori dal suo vangare, fuori dai suoi pensieri;
alzò gli occhi in uno sbalordimento abbacinato, mentre il suo spirito errava
ancora nell’altro mondo più vero della verità, ancora concentrato sulle
immensità della morte e della divinità: alzò la testa e vide, in alto e vicino, lo
sciame dei velivoli volteggianti.
Arrivavano come delle cavallette, restavano sospesi, discendevano
tutt’attorno a lui nella brughiera.
E dai ventri di quelle cavallette giganti uscivano degli uomini vestiti di flanellaviscosa
bianca, delle donne (perché la temperatura era calda) in pigiama di
seta all’acetato o in combinazioni di velluto di cotone corte e senza maniche,
con la chiusura automatica mezza aperta; una coppia da ognuno.
In pochi minuti ce ne furono delle dozzine, disposte in un vasto cerchio
attorno al faro, con gli occhi spalancati, ridendo, puntando le macchine
fotografiche, lanciando (come a una scimmia) pistacchi, pacchetti di gomma
da masticare all’ormone sessuale, biscotti panglandulari.
E ad ogni istante – poiché attraverso Hog’s Back la corrente del traffico ora
discendeva senza posa – il loro numero aumentava.
Come in un incubo le dozzine diventavano ventine, le ventine centinaia.
Il Selvaggio s’era ritirato verso uno scampo, e ora, nell’atteggiamento di un
animale sulla difensiva, stava col dorso contro il muro del faro, girando lo
sguardo da un viso all’altro in un orrore muto, come un uomo fuori di senno.
Da questo stupore egli era passato a una più immediata coscienza della
realtà per l’urto contro la sua guancia di un pacchetto di gomma da masticare
lanciato con precisione.
Un sussulto di sorpresa e di dolore, ed egli si trovò risvegliato del tutto,
risvegliato e ferocemente irritato.
Andatevene! urlò.
La scimmia aveva parlato; ci fu un’esplosione di risa e di applausi: Bravo il
Selvaggio! Evviva! Evviva!.
E in mezzo alla babele delle voci, grida di: Frustino, frustino, frustino!.
In obbedienza a ciò che le parole suggerivano, egli strappò il groviglio di
corde annodate dal chiodo dietro alla porta, e lo agitò davanti ai suoi
tormentatori.
Ci fu un’ondata di acclamazioni ironiche.
Minaccioso egli avanzò verso di loro.
Una donna si mise a gridare di terrore.
La linea si piegò nel suo punto più immediatamente esposto, poi si riprese, si
mantenne ferma.
La coscienza d’essere in forze soverchianti dava a quei curiosi un coraggio
che il Selvaggio non si sarebbe mai aspettato.
Sorpreso, egli si arrestò e si guardò attorno.
Perché non volete lasciarmi in pace? C’era una nota quasi lagrimosa nella
sua collera.
Prendete qualche mandorla salata al magnesio! disse l’uomo che, se il
Selvaggio si fosse ancora avanzato, sarebbe stato il primo a essere
attaccato.
Tese un pacchetto.
Sono veramente molto buone, sapete soggiunse con sorriso propiziatorio un
poco nervoso.
E i sali di magnesio contribuiranno a mantenervi giovane.
Il Selvaggio disdegnò la sua offerta.
Cosa volete da me? domandò voltandosi dall’uno all’altro dei volti
sogghignanti.
Che cosa volete da me? Il frustino risposero confusamente un centinaio di
voci.
Vogliamo il frustino.
Fateci vedere il colpo di frusta! Poi, all’unisono e su un ritmo lento e pesante:
Noi… vogliamo… il frustino gridò un gruppo all’estremità della linea.
Noi… vogliamo… il frustino…
Altri ripresero tosto il grido, e la frase fu ripetuta pappagallescamente molte
volte, con un volume di suono senza posa crescente, così che, dalla settima
o ottava ripetizione, nessun’altra parola fu più pronunciata.
Noi… vogliamo… il frustino.
Gridavano tutti insieme e, eccitati dal chiasso, dalla unanimità, dal senso di
ritmico accordo, avrebbero potuto, sembrava, continuare per delle ore, quasi
indefinitamente.
Ma, verso la venticinquesima volta, la manovra venne improvvisamente
interrotta.
Un altro elicottero era arrivato da Hog’s Back.
Restò sospeso sopra la folla e poi atterrò a qualche metro dal luogo dove
stava il Selvaggio, nello spazio libero tra la linea dei curiosi e il faro.
Il fragore delle eliche coprì momentaneamente i clamori; poi, mentre
l’apparecchio toccava il suolo e i motori si fermavano, tutti ripresero con lo
stesso tono insistente e monotono: Noi… vogliamo… il frustino; noi…
vogliamo… il frustino.
Lo sportello dell’elicottero si aprì e ne uscirono prima un giovane biondo dalla
faccia rossa, e poi, in calzoncini corti di velluto di cotone verde e camicetta
bianca e berretto da fantino, una ragazza.
Alla vista di costei, il Selvaggio trasalì, indietreggiò, si fece pallido.
La ragazza rimase ferma sorridendogli: un sorriso incerto, implorante, quasi
umile.
I secondi passavano.
Le sue labbra si mossero, lei diceva qualche cosa, ma il suono della voce era
coperto dal pesante ritornello reiterato dei curiosi.
Noi… vogliamo… il frustino! Noi… vogliamo… il frustino! La giovane donna
con le mani si premette il fianco destro e sul suo viso lucente di pesca, bello
come quello d’una bambola, apparve un’espressione strana e assurda
d’angoscia e di desiderio.
I suoi occhi azzurri sembravano diventare più grandi e splendenti e
d’improvviso due lacrime le scesero lungo le gote.
Senza riuscire a farsi sentire, parlò di nuovo; poi con un gesto vivo e
appassionato tese le braccia verso il Selvaggio e gli andò incontro: Noi…
vogliamo… il frustino! Noi… vogliamo…
E di colpo essi ebbero ciò che volevano.
Cortigiana! Il Selvaggio s’era precipitato su di lei come un pazzo.
Puzzola! Come un pazzo s’era messo a batterla col suo frustino di corde
sottili.
Terrorizzata, lei s’era voltata per fuggire, aveva inciampato ed era caduta
nella brughiera.
Enrico, Enrico! gridò.
Ma il suo compagno dalla faccia rossa s’era messo al riparo d’ogni pericolo
dietro l’elicottero.
Con un urlo di sovreccitazione grandiosa, la linea si ruppe; si produsse una
corsa convergente verso quel punto d’attrazione magnetica.
Il dolore era un orrore affascinante.
‘Fregola, lussuria, fregola! (32) Frenetico, il Selvaggio la colpì di nuovo.
Avidamente essi si raccolsero attorno, fremendo e spingendosi come maiali
attorno al truogolo.
Oh! la carne! Il Selvaggio digrignò i denti.
Questa volta fu sulle sue spalle che il frustino discese.
A morte, a morte! Attirati dal fascino del dolore e dell’orrore e, interiormente,
spinti dall’abitudine della cooperazione, dal desiderio dell’unanimità e della
comunione che il condizionamento aveva così indelebilmente impresso in
loro, si misero a mimare la frenesia dei suoi gesti, battendosi gli uni gli altri,
mentre il Selvaggio flagellava ora la propria carne ribelle, ora quella morbida
incarnazione della turpitudine che si contorceva nella polvere ai suoi piedi.
A morte, a morte, a morte… continuava a gridare il Selvaggio.
Poi improvvisamente qualcuno cominciò a cantare: ‘Orgy-porgy’ e in un
momento tutti ripresero il ritornello e, cantando, si misero a danzare. ‘Orgyporgy’
girando, girando, girando, percuotendosi l’un l’altro in sei e otto tempi.
‘Orgy-porgy…
Era passata la mezzanotte quando l’ultimo elicottero prese il volo.
Istupidito dal “soma” ed esausto da una frenesia prolungata di sensualità, il
Selvaggio dormiva, disteso sulla brughiera.
Il sole era già alto quand’egli si svegliò.
Restò disteso un momento, socchiudendo gli occhi infastidito dalla luce; poi,
improvvisamente, si ricordò di tutto.
Oh! mio Dio, mio Dio! Si coperse gli occhi con le mani.
Quella sera lo sciame degli elicotteri che arrivavano ronzando da Hog’s Back
formava una nuvola oscura lunga dieci chilometri.
La descrizione dell’orgia collettiva della notte precedente era apparsa in tutti i
giornali.
Selvaggio! chiamarono i primi arrivati, mentre discendevano dagli
apparecchi.
Signor Selvaggio! Non ricevettero risposta.
La porta del faro era socchiusa.
Essi l’aprirono ed entrarono, in un crepuscolo di imposte accostate.
Attraverso un arco, all’altra estremità della stanza, videro il principio della
scala che saliva ai piani superiori.
Proprio sotto la chiave della volta penzolavano un paio di piedi.
Signor Selvaggio! Lentamente, molto lentamente, come due aghi di bussola
che non abbiano premura, i piedi si voltarono verso destra, nord, nord-est,
est, sudest, sud, sud-est; poi si fermarono, e dopo qualche secondo,
ritornarono, sempre senza fretta, verso sinistra.
Sud, sud-ovest, sud, sud-est, est…

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