L’Europa, l’area Mena e la questione migratoria: un bivio identitario tra integrazione e assimilazione

di Omar Mohsen

 

L’accelerazione del processo di globalizzazione, tanto nelle sue manifestazioni economiche quanto in quelle culturali, ci ha indotti a pensare a un mondo piatto e uniforme.

Un mondo in cui le dinamiche che si sviluppavano nel cuore dell’impero occidentale, gli Stati Uniti, fossero pressocché identiche a quelle della sua periferia, l’Europa. Tuttavia, se consideriamo sotto un profilo geopolitico un fenomeno cruciale del nostro tempo, quale quello dell’immigrazione e delle politiche a esso connesse, scopriamo una sostanziale differenza di approccio tra chi mira a ricoprire il ruolo di potenza tout court e chi, tirandosi “fuori dalla storia”, punta invece esclusivamente al benessere socioeconomico. In tutto ciò la Francia rappresenta un’eccezione in ambito europeo e, oggi più che mai, si trova davanti a una sfida in grado di incidere significativamente sul proprio futuro.

Migrazioni e potenza. Approccio Statunitense e approccio europeo

Per comprendere il “modus operandi statunitense rispetto alle questioni legate alle migrazioni e distinguerlo da quello dei vari Stati europei è necessario innanzitutto fare una premessa: gli Stati Uniti necessitano costantemente di immigrati per mantenere giovane[1] la propria demografia. Una demografia giovane, funzionale non tanto al primato economico, quanto a quello di potenza tout court[2] . Nei Paesi europei, invece, l’approccio nei confronti del fenomeno migratorio ha radici squisitamente socioeconomiche. In tal senso i due maggiori imperativi che si pongono i Paesi del Vecchio Continente sono: tenuta dei sistemi previdenziali e necessità di acquisire manodopera a basso costo per stare al passo con i ritmi della competizione economica globale.  

Per citare Marx, in Europa l’immigrazione ben si sposa con il concetto di “esercito industriale di riserva”. Tuttavia, ad avviso di chi scrive, una delle “falle” del pensiero marxiano consiste proprio nel considerare il Capitale come massima espressione dell’egemonia e della potenza e non semplicemente uno dei suoi fattori[3]. Nessuna potenza, per potersi definire tale, può prescindere dal primato innanzitutto militare e poi tecnologico, essendo i due fattori inscindibilmente legati[4]. Si consideri inoltre che, ad un’analisi attenta, la supremazia egemonica su scala regionale e globale raramente è coincisa, nel corso della storia, con un rigorismo dal punto di vista economico finanziario.

Detto più semplicemente: le grandi potenze per conservare la propria postura fanno debito, creano clientele, e considerano capitale ed economia come  fattori derivati e secondari rispetto al più ampio piano strategico. Per una grande potenza, o un impero, la geopolitica fa premio sulla geoeconomia.

L’Europa, a seguito degli esiti del Secondo conflitto mondiale, ha messo da parte le proprie velleità di potenza in senso stretto, che fino a quel momento avevano caratterizzato e dilaniato i vari Stati che la componevano, per “uscire dalla storia” e concentrarsi sul benessere socioeconomico. Il prezzo di tutto ciò è stato la perdita della propria autonomia strategica e il rifugio sotto l’ombrello protettivo statunitense per quanto riguarda le questioni di sicurezza.

La funzione che la popolazione immigrata ha negli Stati Uniti è quindi diversa da quella che quest’ultima ha in Europa. Per quanto riguarda la superpotenza a stelle e strisce, l’obiettivo è quello di mantenere vivi, attraverso una demografia che deve rimanere giovane, la proiezione egemonica e l’afflato imperiale; nel caso europeo il fine è invece quello di alimentare la competitività del sistema produttivo. Se in quest’ultimo caso è sufficiente che lo straniero venga integrato nella società ospitante, nel primo, invece, si rende necessaria una sua assimilazione nella società di arrivo.

Due concetti sotto diversi aspetti differenti quelli di integrazione e assimilazione. In effetti l’assimilazione, essendo un “processo di interpenetrazione e fusione in cui persone e gruppi acquisiscono memorie e atteggiamenti di altre persone e gruppi”[5], richiede l’abbandono da parte della popolazione immigrata della propria identità originaria a favore di quella del Paese di arrivo[6]. L’integrazione, avendo fini prettamente economici, consente invece alle comunità straniere di mantenere, nei limiti di una convivenza pacifica e non conflittuale, la propria identità originaria. 

 D’altro canto, nel caso dell’assimilazione, quantomeno sul piano teorico, il migrante diventa a tutti gli effetti membro e cittadino della comunità di arrivo. Per quanto riguarda l’integrazione è bensì implicita una sottile differenza tra la cittadinanza nazionale e quella, che pur potendo conservare i propri usi e costumi, viene considerata una comunità altra e non eguale.          

L’Europa e la Francia.  Dall’integrazione all’assimilazione

In ambito europeo la Francia rappresenta per certi versi un’eccezione. Ostile negli anni successivi la Seconda guerra mondiale all’idea di vedersi relegata a una posizione di satellite americano, ha sempre cercato di mantenere un margine di autonomia[7]. Informata dal proprio passato e dalla propria cultura ha optato per l’adozione di   politiche assimilatrici nei confronti delle popolazioni immigrate.

Popolazioni che per buona parte, anche a causa del passato coloniale, provengono dai paesi dell’area mediorientale e subsahariana. Un’assimilazione a volte riuscita, a volte problematica. Ce lo ricordano la rivolta delle banlieue dei primi anni 2000, il fenomeno del radicalismo islamista che nella République è culminato in atti di violenza e nei tristi attentati a Parigi e Nizza e, più recentemente, gli scontri avvenuti in seguito all’uccisione di Nahel Merzouk.

Per quanto riguarda il fenomeno della violenza di matrice islamista, una chiave di lettura interessante potrebbe essere quella fornita dallo studioso Oliver Roy, il quale piuttosto che vedere un processo di radicalizzazione dell’Islam, parla di un’ islamizzazione della devianza. Un’interpretazione  che permette di scorgere una sorta di continuità tra le varie ondate di  violenza che hanno interessato i nostri vicini d’oltralpe. 

Permane tuttavia il problema della mancata assimilazione, ma anche integrazione, di parte della popolazione immigrata stabilizzatasi nel territorio dell’Hexagone. Questione piuttosto spinosa e problematica per un Paese che, vedendo aprirsi nuovi spazi di influenza causati dal disimpegno americano nel Mediterraneo allargato e dal nuovo ordine mediorientale post primavere arabe[8], vorrebbe proiettare colà la propria potenza.

Un corpo sociale coeso, giovane e assimilato costituirebbe senza dubbio un fattore di peso fondamentale per le rinnovate velleità “imperiali” della République.   Da qui la volontà di istruire e creare imam di Stato, fedeli ai valori costituzionali della Francia e scevri dalle ingerenze dottrinarie di una versione ideologica dell’Islam promossa da Paesi rivali, quali possono essere le Monarchie del Golfo o la Turchia di Erdogan. 

Come evitare il ripetersi di fenomeni come quelli recenti, in grado di creare profonde spaccature all’interno del corpo sociale? 

Considerando le collettività come aggregazioni di singoli individui è possibile applicare  alle comunità i criteri utilizzati a livello individuale nella psicoanalisi. Freud riconosce che il passaggio all’età adulta avviene mediante una ribellione del soggetto rispetto alla figura paterna; un distacco, quest’ultimo, che generalmente si verifica in età tardo adolescenziale.

Ribellione considerata essenziale nel processo di crescita e che porterà l’individuo a guardare con una certa criticità alla cultura paterna, senza tuttavia abbandonarla, per dialogare con le altre comunità con cui si troverà via a via ad interagire in un rapporto di natura paritaria e dialettica. Processo che contribuirà a plasmare un nuovo “io”, conferendo una sorta di unicità e irripetibilità alla singola persona. In tal senso, le comunità di immigrati avrebbero dovuto sviluppare un sentimento di sana criticità verso le proprie identità e culture di appartenenza.

In molti casi è avvenuto l’esatto opposto e questi si sono arroccati in maniera reazionaria sull’identità di origine, ribellandosi non a questa, ma alla più ampia società nella quale vivono e della quale fanno parte. Se nel caso delle prime generazioni l’assimilazione è andata a buon fine, per quanto concerne invece le seconde e terze generazioni, i nuovi “cittadini” hanno sovente visto in una pseudo identità reinventata[9] e ancestrale un modo per opporsi a una società percepita come “altra” e ostile. 

Se si vuole evitare una frattura del corpo sociale si renderà necessario adottare un processo di assimilazione che da una parte decostruisca la solidità delle identità “reazionarie”, dall’altra apra ad un’assimilazione di tipo dialettico, lontana dal classico laicismo francese. Un’assimilazione in cui l’identità di origine concorra anch’essa a plasmare l’identità collettiva del più ampio corpo sociale di cui andrà a far parte.  


[1] Riguardo al fattore demografico, come non citare la massima dell’élite politica cinese per cui era necessario diventare ricchi prima di divenire vecchi.

[2] Si pensi all’eventualità di un conflitto. Una popolazione giovane avrebbe certamente una capacità di resilienza maggiore rispetto agli oneri e ai sacrifici che questi comporterebbe. 

[3] Tra i fattori di potenza classicamente intesi annoveriamo i sistemi d’arma, gli eserciti, la tecnologia, la moneta, i capitali. Si noti che su un piano globale i Paesi europei, se presi singolarmente, non hanno il predominio su alcuno di essi. In quanto membri dell’Unione Europea beneficiano invece di una moneta piuttosto solida.

[4] Da considerare come tutte le maggiori innovazioni in ambito civile, generalmente, originino dal dominio militare.

[5] M. Ambrosini, Sociologia delle Migrazioni, Il Mulino, Bologna, 2005, p.54. 

[6] Ciò va letto anche alla luce di ciò che si vorrebbe chiedere ai futuri nuovi cittadini: un elevato livello di sacrificio e la disponibilità ad arrischiare la propria vita e sicurezza nell’interesse della comunità nazionale.

[7] Si pensi al gaullismo, o ai tentativi di costituire un asse franco tedesco in ambito europeo.

[8] Le primavere arabe hanno causato vari vuoti di potere nell’area e, in alcuni di quei contesti, la Francia aveva inizialmente cominciato a intravedere delle opportunità. Spicca il tentativo, poi fallito a beneficio di russi e turchi, di riequilibrare la presenza italiana in Libia a proprio favore dopo la caduta di Muhammar Gheddafi.

[9] In tal senso le ideologie affini all’islam politico e al salafismo sono delle narrative che si riallacciano a un passato reinventato e che, trincerandosi in un tempo mitizzato, escludono la variabile storica.

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