Il mondo Nuovo

di Aldous Huxley

Capitolo VII

 

 

La mesa sembrava una nave trattenuta dalla bonaccia in uno stretto di polvere di color fulvo.
Il canale serpeggiava tra rive scoscese e, discendendo da un muro all’altro attraverso la valle, correva una striscia verde: il fiume e i campi.
Sulla prua di questa nave di pietra, al centro dello stretto e come se ne facesse parte, affioramento definito e geometrico della roccia nuda, stava il “pueblo” di Malpais.
Blocco su blocco, ogni piano più piccolo di quello sottostante, le alte case salivano come tronche piramidi, a scale, nel cielo azzurro.
Ai loro piedi giaceva un ammasso di edifici bassi, un groviglio di muri; e su tre lati i precipizi strapiombavano sulla pianura.
Alcune colonne di fumo salivano dritte nell’aria calma e vi si perdevano.
Strano disse Lenina molto strano.
Questa era la sua formula abituale di condanna.
Non mi piace.
E non mi piace neppure quest’uomo.
Accennò alla guida indiana che era stata scelta per accompagnarli al “pueblo”.
Il suo sentimento era evidentemente ricambiato; la schiena stessa dell’uomo, mentre camminava davanti a loro, era ostile, cupamente sprezzante.
E poi abbassò la voce puzza maledettamente.
Bernardo non si provò a negarlo.
Continuarono la marcia.
Improvvisamente fu come se tutta l’aria fosse diventata viva e palpitasse, palpitasse con l’infaticabile pulsazione del sangue.
Lassù, a Malpais, i tamburi rullavano.
I loro piedi seguirono il ritmo di quel cuore misterioso; accelerarono il passo.
Il sentiero che seguivano li condusse ai piedi del precipizio.
I fianchi della grande nave-mesa torreggiavano sopra di loro, cento metri di strapiombo.
Vorrei che avessimo portato qui l’aeroplano disse Lenina alzando con ira gli occhi al fianco nudo della roccia a picco.
Non mi piace camminare.
E poi ci si sente così piccoli quando ci si trova a terra ai piedi d’una montagna.
Procedettero per un tratto di strada all’ombra della mesa, contornarono una sporgenza e là, in un burrone scavato dalle acque, era il capo d’una scala come quella che dalla cabina conduce al ponte di poppa.
Vi si arrampicarono.
Il sentiero era ripidissimo e procedeva a zig-zag da una parete all’altra della gola.
In certi momenti il rullar dei tamburi era appena percettibile, in altri sembrava ch’essi rullassero dietro la prima svolta.
Quando furono a metà cammino, un’aquila passò, volando così vicino che il vento delle sue ali soffiò freddo sulle loro facce.
In un crepaccio della roccia giaceva un mucchio d’ossa.
Tutto era angosciosamente strano, e l’indiano puzzava sempre più.
Sbucarono finalmente dal burrone in pie no sole.
La sommità della mesa era una piattaforma di pietra.
Sembra la Torre di Charing-T commentò Lenina.
Ma non poté godere a lungo della scoperta di questa rassicurante rassomiglianza.
Un fruscio di passi felpati li fece voltare.
Nudi dalla gola fino all’ombelico, i corpi bruno-scuri dipinti di righe bianche (‘come i campi di asfalto del tennis’ doveva spiegare Lenina più tardi), i volti resi inumani da pennellate di rosso, nero e giallo, due indiani giungevano correndo lungo il sentiero.
I loro capelli neri erano intrecciati con pelle di volpe e flanella rossa.
Mantelli di piume di tacchino svolazzavano dalle loro spalle; enormi diademi di penne accendevano attorno alle loro teste i più sgargianti colori.
Ad ogni passo che muovevano risonavano con clangore metallico i loro braccialetti d’argento, le loro pesanti collane di osso e di perle di turchese.
S’avvicinavano senza dir parola, correndo silenziosamente sui loro mocassini di pelle di daino.
Uno teneva un piumino, e l’altro portava in ogni mano delle cose che viste a distanza sembravano tre o quattro pezzi di grossa fune.
Uno di questi pezzi di fune si contorceva spasmodicamente, e d’improvviso Lenina s’accorse che erano serpenti.
Gli uomini s’avvicinavano sempre più; i loro occhi scuri si fissarono su di lei ma senza dare nessun segno di riconoscimento, il minimo indizio che l’avessero veduta o avessero coscienza della sua esistenza.
Il serpente che prima si contorceva, adesso pendeva inerte con gli altri.
Gli uomini passarono.
Non mi piace disse Lenina non mi piace.
Le piacque ancor meno ciò che l’attendeva all’entrata del “pueblo” dove la guida li lasciò mentre entrava per istruzioni.
La sporcizia, tanto per cominciare, i cumuli d’immondizie, la polvere, i cani, le mosche.
La sua faccia si deformò in una smorfia di disgusto.
Essa portò il fazzoletto al naso.
Ma come possono vivere così? proruppe con una voce d’incredulità sdegnata. (Non era possibile.) Bernardo alzò filosoficamente le spalle.
In ogni modo rispose vivono da cinque o seimila anni.
Motivo per cui suppongo che ci siano ormai abituati.
Ma la pulizia viene col tempo di Ford insistette lei.
Già, e la civiltà è sterilizzazione continuò Bernardo, concludendo su un tono d’ironia la seconda lezione ipnopedica d’igiene elementare.
Ma questa gente non ha mai sentito parlare del Nostro Ford e non è civilizzata.
Dunque non c’è ragione di…
Oh! gli si aggrappò al braccio.
Guarda! Un indiano quasi nudo scendeva lentamente la scala dal terrazzo del primo piano d’una casa vicina, gradino per gradino, con la cautela tremebonda dell’estrema vecchiezza.
La sua faccia era segnata da rughe profonde, e nera come una maschera silicea.
La bocca sdentata era infossata.
Agli angoli delle labbra e a ciascun lato del mento pochi lunghi peli quasi bianchi luccicavano sulla pelle scura.
I lunghi capelli non intrecciati gli ricadevano in ciocche grigie attorno al viso.
Il suo corpo era curvo e tutt’ossa, quasi scarnito.
Scendeva lentamente, soffermandosi ad ogni passo prima di avventurarsi a farne un altro.
Che cos’ha? chiese Lenina.
I suoi occhi erano spalancati per l’orrore e lo stupore.
E’ vecchio, quest’è quanto rispose Bernardo con tutta l’indifferenza di cui era capace.
Anche lui era turbato; ma fece uno sforzo per non apparire colpito.
Vecchio? ripeté lei.
Ma anche il Direttore è vecchio, tante altre persone son vecchie; ma non sono così.
Perché non permettiamo loro di diventare così.
Li preserviamo dalle malattie.
Manteniamo bilanciate artificialmente le loro secrezioni interne, nell’equilibrio della giovinezza.
Non permettiamo che la loro dose di magnesio e di calcio discenda al di sotto di ciò che era a trent’anni.      Li sottoponiamo a trasfusioni di sangue giovane.
Manteniamo il loro metabolismo frequentemente stimolato.
Così, naturalmente, non hanno quest’aspetto.
In parte aggiunse perché la maggioranza d’essi muoiono molto tempo prima d’aver raggiunta l’età di questo vecchio.
La gioventù quasi intatta fino a sessant’anni, e poi, crack! la fine.
Ma Lenina non ascoltava.
Osservava il vecchio.
Lentamente, lentamente, egli scendeva.
I suoi piedi toccarono il suolo.
Egli si voltò.
Nelle orbite profondamente incavate, i suoi occhi erano ancora straordinariamente vivi.
Si fissarono su di lei per un certo tempo, senza espressione, senza sorpresa, come se non ci fosse affatto.
Poi lentamente, con la schiena curva, il vecchio passò loro davanti zoppicando e scomparve.
Ma è terribile sussurrò Lenina.
E’ spaventoso.
Non avremmo dovuto venir qui.
Si tastò in tasca per trovare il “soma”, ma solo per accorgersi che, causa una dimenticanza senza precedenti, aveva lasciato la bottiglietta alla locanda.
Anche le tasche di Bernardo erano vuote.
Pertanto Lenina dovette affrontare senza soccorsi gli orrori di Malpais.
I quali si abbatterono su di lei in massa e rapidi.
Lo spettacolo di due giovani madri che allattavano i loro bambini la fece arrossire e la costrinse a voltar via la faccia.
Non aveva mai visto in vita sua una cosa tanto indecente.
E ciò che la rendeva peggiore era che, invece di ignorarla con tatto,
Bernardo si mise a fare dei commenti aperti su questa rivoltante scena vivipara.
Vergognoso, ora che gli effetti del “soma” erano passati, della debolezza che aveva mostrato quella mattina alla locanda, egli esagerava apposta per apparire forte ed eterodosso.
Che relazione meravigliosamente intima! disse con animo deliberatamente oltraggioso.
E quale intensità di sentimento deve generare! Sovente penso che forse abbiamo perduto qualche cosa a non aver avuto una madre.
E forse anche voi avete perduto qualche cosa a non essere madre, Lenina.
Immaginatevi seduta là, con una creaturina vostra…
Bernardo! Come potete…? Il passaggio d’una vecchia con l’oftalmia e un malanno della pelle la distrasse dalla sua indignazione.
Andiamo via supplicò.
Sono disgustata.
Ma proprio in questo momento la guida ricomparve, e facendo loro segno di seguirlo li condusse lungo la stretta via tra le case.
Girarono un angolo.
Un cane morto giaceva sopra un mucchio di immondizie; una donna gozzuta cercava i pidocchi nei capelli d’una ragazzetta.
La guida si fermò ai piedi d’una scala, alzò la mano perpendicolarmente, poi la mosse orizzontalmente in avanti.
Essi eseguirono ciò ch’egli comandava mutamente, si arrampicarono su per la scala e passarono la porta alla quale essa dava accesso, entrando in una stanza lunga e stretta, piuttosto scura e piena di un tanfo di fumo, di grasso fritto e d’abiti vecchi non lavati da molto tempo.
All’altra estremità della stanza c’era un’altra porta attraverso la quale penetrava un raggio di luce, e insieme il rullare, assai forte e vicino, dei tamburi.
Varcarono la soglia e si trovarono sopra una vasta terrazza.
Sotto di loro, chiusa tra le alte case, c’era la piazza del villaggio, affollata d’indiani.
Coperte di lana dai colori vivaci, piume tra i neri capelli, e lo scintillio delle turchesi, e le pelli scure madide di sudore.
Lenina si turò di nuovo il naso col fazzoletto.
In uno spazio libero nel centro della piazza si alzavano due piattaforme circolari di mattoni e d’argilla battuta; i tetti, evidentemente, di camere sotterranee; infatti nel mezzo d’ogni piattaforma s’apriva una specie di boccaporto con una scala emergente dalle tenebre sottostanti.
Ne saliva anche un suono di flauti sotterranei che si perdeva quasi completamente nel rumore persistente e implacabile dei tamburi.
A Lenina piacevano i tamburi.
Chiudendo gli occhi, si abbandonò al loro sordo tuono incessante, lasciò ch’esso s’impadronisse sempre più completamente della sua coscienza, così che in fine non esistette più nulla al mondo all’infuori di quell’unica profonda pulsazione sonora.
Le rammentava, rassicurandola, i rumori sintetici del Servizio di Solidarietà e delle cerimonie della Giornata di Ford. ‘Orgy-porgy’ mormorò tra sé.
I tamburi scandivano esattamente lo stesso ritmo.
Scoppiò d’improvviso un’esplosione di canti spaventosi: centinaia di voci maschie che gridavano impetuosamente in un unisono duro e metallico.
Alcune note lunghe e silenzio, il tonante silenzio dei tamburi; poi acuta, in uno squillante nitrito, la risposta delle donne.
Poi di nuovo i tamburi; poi ancora una volta da parte degli uomini la profonda e selvaggia affermazione della loro virilità.
Strano, certo.
Strani il posto e la musica e gli abbigliamenti, come erano strani i gozzi e le malattie della pelle e i vecchi.
Ma quanto allo spettacolo, non sembrava che in esso vi fosse nulla di strano.
Mi ricorda il Canto in comune delle caste inferiori disse Lenina a Bernardo.
Ma un po’ più tardi le ricordò molto meno quell’innocente cerimonia.
Poiché improvvisamente uscì come uno sciame, dalle camere circolari del sottosuolo, una spaventevole banda di mostri.
Orribilmente mascherati o dipinti sì da perdere ogni umana sembianza, avevano cominciato a ballare una strana danza zoppicante attorno alla piazza; attorno, sempre attorno, cantando e girando, attorno, sempre attorno, ogni volta più in fretta; e i tamburi avevano modificato e accelerato il loro ritmo, sì ch’esso era diventato simile al pulsare della febbre nelle orecchie; e la folla s’era messa a cantare coi danzatori, sempre più forte; e prima una donna aveva urlato, e poi un’altra e un’altra ancora, come se le scannassero, e poi improvvisamente il capo dei danzatori uscì dal circolo, si lanciò su una grande cassa di legno che si trovava ad un’estremità della piazza, sollevò il coperchio e ne trasse una coppia di serpenti neri.
Un urlo sorse dalla folla e tutti gli altri ballerini corsero verso di lui con le mani tese.
Egli gettò i serpenti ai primi arrivati, poi affondò le mani nella cassa per prenderne degli altri.
Ancora e ancora, serpenti neri e bruni e maculati, tutti li trasse fuori.
Quindi la danza ricominciò su un ritmo differente.
Ripresero a girare e rigirare in tondo, coi loro serpenti, serpentinamente, con un lieve movimento ondulatorio delle ginocchia e delle anche.
In tondo, in tondo.
Poi il capo fece un segnale, e l’uno dopo l’altro tutti i serpenti furono lanciati in mezzo alla piazza; un vecchio uscì dal sottosuolo e li asperse di farina di grano, e dall’altro boccaporto uscì una donna che li spruzzò d’acqua da una brocca nera.
Allora il vecchio alzò una mano e con impressionante terribile simultaneità si fece un assoluto silenzio.
I tamburi cessarono di rullare, pareva che la vita fosse giunta alla sua fine. 
Il vecchio indicò i due boccaporti che davano accesso al mondo inferiore.
E lentamente, innalzate di sotto da mani invisibili, emersero da uno l’immagine dipinta d’un’aquila e dall’altro quella d’un uomo nudo, inchiodato sopra una croce.
Restarono là, apparentemente sostenute da sé stesse, come se osservassero.
Il vecchio batté le mani.
Nudo, con solo un panno bianco di cotone intorno ai lombi, un ragazzo di diciott’anni all’incirca uscì dalla folla e stette davanti a lui, con le mani incrociate sul petto e il capo chino.
Il vecchio fece su di lui il segno della croce e si ritirò.
Lentamente il ragazzo cominciò a girare attorno al mucchio di serpenti che si contorcevano.
Aveva terminato il primo giro ed era a metà del secondo quando, di tra i ballerini, un uomo alto che portava la maschera di lupo delle praterie e teneva in mano una frusta di cuoio intrecciato mosse verso di lui.
Il ragazzo continuava a marciare come se fosse inconsapevole dell’esistenza dell’altro.
L’uomo-lupo alzò la frusta; ci fu una lunga pausa d’attesa, poi un movimento rapido, il sibilo della frusta e il colpo sordo e secco sulla carne.
Il corpo del ragazzo sussultò; ma egli non emise nessun suono, continuò anzi a marciare col medesimo passo lento e regolare.
Il lupo colpì ancora, ancora; e ad ogni colpo prima un sospiro poi un gemito profondo s’alzò dalla folla.
Il ragazzo continuava a camminare.
Due, tre, quattro volte compì il giro.
Il sangue colava.
Cinque volte il giro, sei volte il giro.
Ad un tratto Lenina si coprì il viso con le mani e si mise a singhiozzare.
Oh! Fermateli, fermateli! implorava.
Ma la frusta scendeva, scendeva inesorabilmente.
Sette volte il giro.
A questo punto, improvvisamente il ragazzo barcollò e, sempre senza un grido, precipitò con la testa in avanti.
Chinandosi su di lui, il vecchio gli toccò la schiena con una lunga penna bianca, la levò in alto per un momento, scarlatta, perché tutti la vedessero, poi la scosse tre volte sopra i serpenti.
I danzatori si buttarono avanti, raccolsero i serpenti e lasciarono di corsa la piazza.
Uomini, donne, bambini, tutta la folla si squagliò dietro loro.
Un minuto dopo la piazza era deserta, rimaneva soltanto il ragazzo, con la faccia contro terra com’era caduto, assolutamente immobile.
Tre vecchie uscirono, lo sollevarono con difficoltà e lo portarono dentro.
L’aquila e l’uomo in croce restarono ancora un poco a montare la guardia sul “pueblo” deserto; poi, come se avessero visto abbastanza, si inabissarono lentamente, attraverso i loro boccaporti, fuori dalla vista, nel mondo sotterraneo.
Lenina continuava a singhiozzare.
Troppo orribile! ripeteva; e tutte le consolazioni di Bernardo furono vane.
Troppo orribile! Quel sangue! Fremeva.
Oh, se avessi il mio “soma”! Si udì un rumore di passi nella camera interna.
Lenina non si mosse, ma restò col viso tra le mani, senza veder nulla, in disparte.
Soltanto Bernardo si voltò.
L’abbigliamento del giovane che in quel momento apparve sulla terrazza era indiano; ma i suoi capelli intrecciati erano color della paglia, i suoi occhi d’un azzurro pallido, e la sua pelle una pelle bianca, abbronzata.
Oh! Buongiorno disse lo sconosciuto in un inglese corretto, ma speciale.
Voi siete civilizzati, non è vero? Venite da quell’altro mondo, fuori della Riserva? Che diamine… cominciò Bernardo, stupito.
Il giovane sospirò e scosse la testa: Un uomo infelicissimo.
E indicando le macchie di sangue in mezzo alla piazza: Vedete quella macchia maledetta? chiese con voce tremante d’emozione.
Un grammo val meglio d’una maledizione disse Lenina meccanicamente, dietro il riparo delle sue mani.
Se avessi il mio “soma”! Io avrei dovuto essere là riprese il giovane.
Perché non mi hanno voluto per il sacrificio? Avrei fatto il giro dieci volte, dodici, quindici.
Palowhtiwa è arrivato soltanto fino a sette.
Con me avrebbero potuto avere il doppio di sangue.
I mari immensi color del sangue…
Stese le braccia in un largo gesto; poi, con disperazione, le lasciò ricadere.
Ma non hanno voluto permettermelo.
Mi vedono di malocchio a causa del colore della mia pelle.
E’ sempre stato così.
Sempre.
Gli occhi del giovane si riempirono di lacrime; egli si vergognò e si voltò per andarsene.
Lo stupore fece sì che Lenina scordasse la mancanza del “soma”.
Si scoprì il viso e per la prima volta guardò lo sconosciuto.
Volete forse dire che “desiderate” d’esser colpito con quella frusta? Sempre stornando lo sguardo da lei, il giovane fece un segno affermativo.
Per il bene del “pueblo”… per far cadere la pioggia e crescere il grano.
E per esser gradito a Poukong e a Gesù.
E poi per dimostrare che sono capace di sopportare il dolore senza gridare.
Sì e la sua voce assunse improvvisamente un altro tono, egli si voltò con un movimento orgoglioso delle spalle, con un orgoglioso moto del mento, come di sfida a per mostrare che sono un uomo…
Oh! Diede un sospiro e tacque rimanendo a bocca aperta.
Aveva visto, per la prima volta in vita sua, il viso d’una ragazza le cui guance non erano color della cioccolata o della pelle di cane, i cui capelli erano castani e con l’ondulazione permanente, e la cui espressione (novità
sorprendente!) era di benevolo interesse.
Lenina gli sorrideva; un simpatico ragazzo, pensava, e di bellissimo aspetto.
Il sangue affluì al viso del giovane; egli abbassò gli occhi, li alzò di nuovo un attimo soltanto per accorgersi che lei gli sorrideva sempre, e ne rimase tanto emozionato che dovette voltarsi altrove e far mostra di guardare attentamente qualche cosa che si trovava dall’altra parte della piazza.
Le domande di Bernardo crearono una diversione.
Chi? Come? Quando? Da dove? Tenendo gli occhi fissi sul viso di Bernardo (poiché desiderava così ardentemente di vedere Lenina sorridere che non osava assolutamente guardarla), il giovane cercò di spiegarsi.
Linda e lui Linda era sua madre (questa parola mise Lenina a disagio) – erano stranieri nella Riserva.
Linda era venuta da quell’altra parte del mondo tanto tempo fa, prima ch’egli nascesse, con un uomo, il padre del giovane (Bernardo tese le orecchie).
Era partita a piedi per una gita nelle montagne, lassù, a nord, era caduta in un burrone e s’era ferita alla testa (‘Avanti, avanti’ disse Bernardo eccitato).
Dei cacciatori di Malpais l’avevano trovata e l’avevano trasportata al “pueblo”.
Quanto all’uomo ch’era padre del giovane, Linda non l’aveva più riveduto.
Si chiamava Tomakin. (Sicuro, Tommaso era il nome del Direttore.) Certo se n’era andato, era tornato al suo paese, senza di lei… un uomo malvagio, crudele, snaturato.
Così io sono nato a Malpais concluse.
A Malpais.
E scosse la testa.
Squallore della piccola casa ai limiti del “pueblo”! Una distesa di polvere e di sudiciume la separava dal villaggio.
Due cani affamati frugavano oscenamente nelle immondizie davanti alla porta.
All’interno, come vi penetrarono, la penombra era greve di cattivi odori e ronzante di mosche.
Linda! chiamò il giovane.
Dal fondo dell’altra stanza una voce femminile molto rauca rispose: Vengo.
Attesero.
In certe scodelle sul pavimento c’erano i residui d’un pasto, forse di parecchi pasti.
Una donna indiana, di forte complessione e bionda, varcò la soglia e ristette contemplando i forestieri, sbalordita e incredula, a bocca aperta.
Lenina notò con disgusto che le mancavano due denti davanti.
E il colore di quelli che le restavano…
Rabbrividì.
Era peggio del vecchio.
E come era grassa! E tutte quelle rughe sul volto, quelle carni flaccide, quelle pieghe.
E quelle guance cascanti, con quei bitorzoli porporini.
E le vene rosse sul naso, gli occhi iniettati di sangue.
E quel collo, quel collo; e lo straccio che s’era messa in testa, a brandelli e lurido.
E sotto la tunica bruna a forma di sacco, i seni enormi, la sporgenza del ventre, le anche.
Oh, molto peggio del vecchio, molto peggio! E improvvisamente la creatura esplose in un torrente di parole, si precipitò verso di lei con le braccia aperte e – Ford! Ford! era troppo rivoltante, un altro momento e avrebbe avuto la nausea – la strinse contro le sue prominenze, contro il suo seno, e si mise a baciarla.
Ford! a baciarla, sbavando; e puzzava orribilmente, di bagni non ne prendeva certo mai uno, e sentiva di quello schifoso prodotto che si mette nelle fiale dei Delta e degli Epsilon (no, non era vero ciò che si diceva di Bernardo), sentiva letteralmente di alcool.
Se ne discostò con la maggior sollecitudine possibile.
Un viso gonfio di lacrime e sconvolto le fu di contro; la creatura piangeva.
Oh, mia cara, mia cara! Il torrente di parole fluiva tra i singhiozzi.
Se sapeste come sono contenta, dopo tanti anni! Una faccia civile.
Sì, e degli abiti civili.
Perché credevo veramente di non rivedere mai più un pezzo di vera seta all’acetato.
Toccò la manica della camicetta di Lenina.
Le sue unghie erano nere.
E questi adorabili calzoncini di velluto di viscosa! Sapete, cara, io ho tuttora i miei vecchi abiti, coi quali son venuta qui, messi in un baule.
Ve li farò vedere più tardi.
Benché, si capisce, l’acetato sia diventato tutto un buco.
Ma la bandoliera bianca è così bella, quantunque debba riconoscere che la vostra di marocchino verde è anche più bella.
Non che mi sia servita a gran cosa questa bandoliera…
Le sue lacrime ripresero a scorrere.
Credo che John vi abbia raccontato.
Quanto ho sofferto, e non un grammo di “soma” sottomano.
Appena una sorsata di “mescal” di tanto in tanto, quando Popé me ne portava.
Popé era un ragazzo che io conoscevo.
Ma si sta così male, dopo, per effetto del “mescal”, e si perdono i sensi col “peyotl”; e poi ciò rendeva ancora più penosa l’indomani l’impressione che provavo di paura e di angoscia.
Io me ne vergognavo realmente.
Pensate: io, una Beta… avere un bambino.
Mettetevi al mio posto (la sola idea fece fremere Lenina).
Quantunque non fosse colpa mia, lo giuro; perché io non riesco ancora a capire come ciò sia avvenuto, dato che avevo eseguito tutti gli esercizi malthusiani, sapete bene, contando uno, due, tre, quattro, sempre, lo giuro; ma, ad onta di tutto, la cosa avvenne; e naturalmente qui non esisteva nulla che rassomigliasse a un Centro di aborti.
A proposito, c’è sempre laggiù a Chelsea? domandò.
Lenina fece un segno affermativo.
E sempre rischiarato dai proiettori il martedì e il venerdì? Lenina confermò di nuovo.
Quella bellissima torre di vetro rosa! La povera Linda alzò il viso e con gli occhi chiusi estaticamente contemplò l’immagine splendente del ricordo.
E il fiume di notte! mormorò.
Grosse lacrime filtrarono lentamente tra le sue palpebre chiuse.
E il ritorno in aeroplano la sera da Stoke Poges! E poi un bagno caldo e un vibro-massaggio elettrico…
Ma qui…
Aspirò profondamente il fiato, scosse la testa, riaprì gli occhi, soffiò una o due volte, poi si pulì il naso con le dita che asciugò nel lembo della tunica.
Oh, scusate tanto disse in risposta all’involontaria smorfia di disgusto di Lenina.
Non avrei dovuto farlo.
Mi dispiace.
Ma come si fa quando non ci sono fazzoletti? Mi ricordo che un tempo m’ha fatto molto soffrire tutta questa sporcizia e l’assoluta mancanza di asepsi.
Avevo un taglio profondo alla testa quando mi condussero qui la prima volta.
Non potete immaginare che cosa ci mettevano.
Del grasso, sicuro, del grasso. ‘La civiltà è sterilizzazione’ badavo a ripetere loro. ‘Sul mio streptococco volate a Banbury-T a vedere il mio raffinato gabinetto da bagno e il W.C.’;… come se fossero dei bambini.
Ma naturalmente essi non comprendevano.
Come l’avrebbero potuto? Alla fine, credo, ci feci l’abitudine.
E poi come ci si può tenere puliti quando non ci sono impianti d’acqua calda?
Guardate questi vestiti.
Questa lurida lana non è come l’acetato.
Dura e stradura.
E siete costretti a rattopparla quando si strappa.
Ma io sono una Beta; lavoravo nel Reparto di Fecondazione; nessuno mi ha mai insegnato a fare alcunché di simile.
Non era affar mio.
D’altra parte non è mai raccomandabile aggiustare dei vecchi vestiti. ‘Buttateli via quando hanno degli strappi e acquistatene dei nuovi. ‘Chi più cuce meno ha’: è così, vero? Il rammendo è antisociale.
Ma qui tutto è diverso.
E’ come se si vivesse con dei pazzi.
Tutto ciò che essi fanno è roba da pazzi.
Si guardò attorno; vide che John e Bernardo le avevano lasciate ed erano andati a far quattro passi tra la polvere e le immondizie fuori della casa; ma, non restando dall’abbassare la voce in tono confidenziale e chinandosi (mentre Lenina s’irrigidiva e indietreggiava) così vicino che il suo fiato puzzolente di veleno per gli embrioni muoveva i capelli sulla guancia della fanciulla, sussurrò rauca: Per esempio, il modo con cui ci si prende l’un l’altro, qui.
Roba da pazzi, vi dico, assolutamente roba da pazzi.
Ciascuno appartiene a tutti gli altri, non è vero? non è vero? insisteva tirando Lenina per la manica.
Lenina voltò via di nuovo la testa, fece un segno affermativo, mandò fuori l’aria che aveva trattenuta e riuscì a inspirarne dell’altra relativamente pura.
Ebbene, qui riprese quella nessuno crede di dover appartenere a più d’una persona.
E se prendete qualcuno secondo la maniera ordinaria, gli altri vi trovano vizioso e antisociale.
Vi odiano e vi disprezzano.
Una volta un gruppo di donne sono venute da me a farmi una scenata perché i loro mariti venivano a vedermi.
Benissimo, perché no? Allora si sono precipitate su di me…
No, fu troppo orribile.
Non ve lo posso raccontare.
Linda si coperse il volto con le mani ed ebbe un fremito.
Come sono odiose le donne qui! Pazze, pazze e crudeli.
E, bene inteso, non capiscono nulla degli esercizi malthusiani, dei flaconi, del travasamento, e di altre cose del genere.
Passano il loro tempo a fare dei figli, come le cagne.
E’ troppo ributtante…
Quando penso che io…
Oh, Ford, Ford, Ford! E tuttavia John mi è stato di grande conforto.
Non so che cosa avrei fatto senza di lui.
Benché egli uscisse dalla grazia ogni volta che un uomo…
Anche quando era ancora piccolo.
Un giorno (ma era più grandicello allora) cercò di fare la pelle al povero Waihusiwa – o era Popé – semplicemente perché io talvolta lo ricevevo.
Poiché non sono mai riuscita a fargli entrare in testa che è questo che deve fare la gente civile.
La follia dev’essere contagiosa, scommetto: in ogni caso sembra che John l’abbia presa dagli indiani.
Infatti, naturalmente, li ha frequentati molto, per quanto poi essi si siano sempre comportati male nei suoi riguardi e non gli abbiano mai permesso di fare tutto ciò che facevano gli altri ragazzi.
Ciò da una parte era un bene, poiché mi facilitava il compito di condizionarlo un poco.
Ma voi non avete l’idea della difficoltà che questo presenta.
Vi sono tante cose che uno non sa; e non era affar mio il sapere.
Voglio dire, quando un ragazzo vi domanda come funziona un elicottero o chi ha fatto il mondo, bene, cosa volete rispondere se siete un Beta e avete sempre lavorato nel Reparto di Fecondazione, che cosa volete rispondere ?

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