I druidi, i misteriosi filosofi della Gallia

di Jean-Louis Brunaux

Nella Gallia più antica esistevano filosofi e teologi, i druidi, che erano anche sacerdoti e vati. Uno dei maggiori filosofi stoici dell’antichità, Posidonio di Apamea, dopo essere entrato in contatto con la popolazione celtica della Gallia in occasione di un viaggio nella regione romana nel 100 a.C. scrisse alcune opere nelle quali delineò questa antica classe sacerdotale. Il filosofo greco racconta che i druidi studiavano gli astri e il loro movimento, calcolavano la misura della terra e riflettevano sul potere degli dei immortali trasmettendo alle generazioni più giovani tutto il loro sapere. Questa testimonianza preziosa riguardo i druidi, di cui oggi rimangono scarse e lacunose notizie storiche, è stata tramandata solo frammentariamente, grazie anche a delle rielaborazioni presenti nell’opera De origine et situ Germanorum di Publio Cornelio Tacito.

Le informazioni di cui disponiamo riguardo a questa classe sociale celtica sono in parte di origine letteraria, ma vi sono anche resoconti in opere storiografiche ed etnografiche, tra cui una delle più dettagliate e antiche narrazioni: il De Bello Gallico di Gaio Giulio Cesare.

A partire dal IV secolo a.C. diversi autori greci utilizzarono il termine “filosofi” per riferirsi ai druidi della Gallia. A quell’epoca il termine druido era abbastanza conosciuto sulle sponde orientali del Mediterraneo: era utilizzato per riferirsi a una casta di persone che viveva nell’Europa centrale e nelle isole d’Oltremanica, che conservava gelosamente le proprie tradizioni, a cui era profondamente legata, tramandando e studiando a memoria i propri rituali religiosi.

In Grecia i druidi era spesso associati ai pitagorici, i discepoli del grande filosofo e matematico Pitagora, poiché i due gruppi avevano delle caratteristiche comuni: erano concepiti come delle sette con pochi adepti, le cui pratiche cultuali si svolgevano in segreto e i cui insegnamenti non potevano essere messi per iscritto, ma soltanto trasmessi oralmente. Come i pitagorici, i druidi credevano nell’esistenza dell’anima immortale e nella metempsicosi: «Il punto essenziale della loro dottrina», scrive Cesare nel VI libro del De Bello Gallico, «è che l’anima non muore e dopo la morte passa da un corpo all’altro». Inoltre i druidi condividevano con la scuola pitagorica lo studio dell’universo e della matematica.

Il mondo greco ebbe spesso un atteggiamento favorevole nei confronti della cultura celtica, tanto da chiedersi se fosse Pitagora ad aver influenzato i druidi oppure i sacerdoti celti a ispirare il pensiero del filosofo greco. Di certo, furono stabiliti intensi rapporti culturali e commerciali tra i celti e la colonia greca di Massalia (odierna Marsiglia), in Francia.

L’origine dei druidi

In che modo i druidi divennero importanti all’interno di quel mondo celtico che ancora oggi appare così oscuro e misterioso? Come accadde in molte culture del Mediterraneo antico, anche i celti si dedicarono allo studio degli pianeti e dell’universo, probabilmente con finalità divinatorie. Il risultato della costante osservazione degli astri nel corso dei secoli fu la creazione di un calendario lunare e solare; tale pratica testimonia della conoscenza del calcolo matematico, della geometria e anche delle scienze in generale da parte dei druidi.

In una società in cui le élite aristocratiche erano impegnate nella guerra, i druidi furono considerati i sapienti. Infatti, a partire dal V secolo a.C., essi raggiunsero una posizione di spicco nelle comunità galliche, così come testimonia il letterato greco Dione Crisostomo: «I druidi erano esperti in divinazione e in ogni altra scienza; senza di essi non era permesso al Re né di agire né di prendere una decisione, al punto che in realtà erano i druidi a comandare, non essendo i re che i servitori e i ministri delle loro volontà».

Tra il secolo V e II a.C. il paesaggio della Gallia si trasformò. Strade e vie fluviali la attraversarono in tutte le direzioni e l’agricoltura e l’allevamento si svilupparono considerevolmente, oltre che l’artigianato e la metallurgia. Questo sviluppo si verificò in concomitanza con gli scambi commerciali con i greci, che arrivati sulle coste della Gallia intrattennero con le popolazioni autoctone dei rapporti pacifici, in alcuni casi di ammirazione e di rispetto per gli elementi comuni tra le due culture, in altri di aperta ostilità o ambiguità per ciò che invece le differenziava. Fu un’epoca di grande prosperità nella storia della Gallia, nella quale i saggi druidi governarono le comunità ancora indipendenti politicamente e culturalmente dai romani nell’Europa occidentale.

Sacerdoti, vati e bardi

Fu proprio per conoscere il popolo celtico che Posidonio di Apamea visitò la Gallia intorno al 100 a.C.: il filosofo e scienziato greco, che condusse ricerche geografiche, storiche ed etnografiche nelle terre nelle quali visse, affermò di aver conosciuto i druidi e ne compilò una descrizione molto dettagliata. Abbiamo una preziosa testimonianza delle diverse mansioni che erano svolte dai druidi: in Gallia oltre al capo supremo, cui accenna anche Cesare, esistevano tre diversi gradi o livelli druidici. Il primo era formato dai druidi, ovvero dai ministri addetti al culto e ai sacrifici, i quali erano anche giudici e consiglieri delle famiglie più influenti di quei territori; essi erano coloro che i greci chiamavano filosofi. Nel grado intermedio si annoveravano i poeti-cantori, ovvero i bardi, che raccontavano e trasmettevano i miti e le tradizioni popolari; inoltre questi accompagnavano i soldati in guerra per celebrare nel canto le gesta degli eroi. L’ultimo livello era costituito dagli indovini, che erano considerati anche maghi e si occupavano dell’aspetto materiale del culto e dei sacrifici religiosi, oltre che della divinazione, dello studio della medicina e dell’astronomia. Ed è probabile che in epoca più tarda fossero addetti a un culto di altro genere, che non prevedesse i sacrifici. I vati erano anche chiamati “ovati” o “eubagi”.

In Irlanda si registrava anche la presenza di donne che erano sacerdotesse o streghe, ovvero di druidesse. Tra le due categorie di druidi che non svolgevano l’attività di filosofi, i bardi erano i più conosciuti. Originariamente questi poeti cantavano le loro opere accompagnati da uno strumento a corde. I loro versi erano considerati sacri, poiché si credeva che fossero la diretta ispirazione degli dei; inoltre la forza del canto poetico conferiva loro una notevole influenza sociale: i bardi infatti svolgevano la funzione di autentici censori, poiché tessendo elogi facilitavano l’ascesa di alcuni in importanti cariche politiche, mentre rivolgendo feroci satire potevano ostacolare o mettere fine alle carriere di altri.

I druidi avevano la pretesa di essere gli unici intermediari tra il mondo degli umani e quello del divino. In quanto teologi si occupavano dei riti sacri stabilendo e organizzando sia il calendario sia il servizio religioso. In realtà, non è certo che essi, pur prendendo parte ai sacrifici, fossero anche officianti o ministri dello stesso, sebbene Cesare racconti che tra i riti praticati dai druidi vi era soprattutto quello dei sacrifici umani. Inoltre i druidi facevano la raccolta del vischio, così come è descritta da Plinio il Vecchio in Historia Naturalis (XVI, 249). Infine, i sacerdoti druidi presiedevano le grandi assemblee religiose in Gallia, mentre, a differenza da quanto si è spesso erroneamente creduto, essi non costruirono mai alcun complesso megalitico, come Stonehenge o Avebury.

Templi e banchetti

La religione dei druidi non si limitava alla sfera privata, ma acquisì anche una funzione sociale e politica. Le loro conoscenze di astronomia e geometria servirono per la costruzione di maestosi santuari per la comunità, simili per dimensione e rilevanza ai templi greci e romani. Queste aree di culto erano dislocate in luoghi aperti all’interno di boschi di quercia, nei quali secondo i sacerdoti era presente un’energia benefica, chiamata Nemeton, che rendeva sacri questi spazi nei quali l’uomo poteva incontrare la divinità. Plinio il Vecchio  riporta l’etimologia della parola druido proprio alla radice indoeuropea (in gaelico duir) che significa quercia.

La religione dei druidi acquisì nel tempo un’importanza e una funzione sociale e politica

Nei sacrifici umani i druidi erano soliti immolare come vittime sacrificali i criminali e raramente degli innocenti, ma gli studiosi non sono concordi sulle modalità degli olocausti e alcuni dubitano persino che questi rituali si siano davvero svolti in Gallia. Le altre offerte tributate agli dei erano di due tipi: uno riguardava  il sacrificio di animali (buoi, maiali, agnelli) oppure di armi e oggetti preziosi.

Cesare, in un passo del De Bello Gallico che si ritrova anche in Posidonio, informa il lettore che il pantheon druidico era simile a quello latino: «Il dio più venerato è Mercurio: ne hanno moltissimi simulacri. Lo ritengono inventore di tutte le arti, guida delle vie e dei viaggi, credono che, più di ogni altro, abbia il potere di favorire i guadagni e i commerci. Dopo di lui adorano Apollo, Marte, Giove e Minerva. Apollo guarisce le malattie, Minerva insegna i principi dei lavori manuali, Giove è il re degli dei, Marte governa le guerre. A quest’ultimo, in genere, quando decidono di combattere, offrono in voto il bottino di guerra: in caso di vittoria, immolano gli animali catturati e ammassano il resto in un unico luogo».

I primi scienziati

Secondo i racconti di Posidonio, i druidi erano panteisti: identificavano la divinità con l’intero cosmo e gli esseri umani partecipavano attraverso i rituali al mondo divino ed erano parte della natura sacra. Importava su tutto la purezza dell’anima e poiché l’aspetto materiale non contava, i galli non lasciarono particolari monumenti o opere d’arte alla posterità.

I druidi si dedicarono allo studio e alla conoscenza del mondo in ambiti molto diversi. Posidonio ci rivela che si dedicavano principalmente alle scienze naturali: la fisica, la chimica, la geologia, la botanica e la zoologia. Allo stesso modo dei greci, i druidi cercavano di comprendere quale fosse la composizione della materia e di isolare i suoi principali componenti, quali aria, acqua e fuoco.

In particolare, i sacerdoti gallici formularono una teoria secondo cui la fine del mondo sarebbe avvenuta in seguito alla separazione di questi tre elementi e si sarebbe conclusa con il dominio assoluto del fuoco e dell’acqua. Tuttavia, questa apocalisse s’inscriveva in un ciclo perpetuo di rinascita e distruzione. Secondo Plinio il Vecchio, i druidi classificarono le specie vegetali e animali e studiarono gli usi di alcuni di esse; in particolare attribuirono al vischio numerose proprietà benefiche.

Nonostante la loro riluttanza a costruire monumenti, i druidi lasciarono importanti testimonianze nel campo dell’arte, in particolare nella lavorazione dei metalli, della pietra e più tardi anche nella miniatura di manoscritti. In campo artistico sono state individuate quattro fasi: lo stile arcaico (a partire dal 480 a.C.), che è caratterizzato da una predilezione per i motivi decorativi classici e orientali; lo stile di Waldalgesheim (dopo il 350 a.C.), nel quale spiccano gioielli e accessori per carri; lo stile plastico (dopo il 290 a.C.), che sviluppa in particolare la tridimensionalità e nel quale sono predominanti disegni ispirati a piante, quali il viticcio; e infine quello delle spade (dopo il 190 a.C.) per le incisioni sui foderi e le impugnature di stile più lineare e astratto.

Un potere forte nella Gallia romana

I druidi avevano un ruolo determinante nella vita politica della loro comunità. Discussero e redassero le prime leggi dei popoli gallici, come nel caso degli edui, per i quali i druidi erano responsabili della nomina dei magistrati. Secondo il racconto di Cesare, i druidi godevano di una condizione privilegiata: non dovevano pagare imposte e non avevano obblighi militari.

Nel tempo la loro influenza si estese in tutto il territorio delle Gallie. Si riunivano ogni anno in un’assemblea, nella quale discutevano di vari argomenti, dalle questioni teologiche a quelle scientifiche. Durante le riunioni era eletto un capo supremo che conservava questa carica fino alla sua morte. Nel corso di questa grande assemblea i druidi svolgevano la loro attività di giudici e amministravano la giustizia, così come ci è testimoniano da Cesare: «In un determinato periodo dell’anno si radunano in un luogo consacrato, nella regione dei carnuti, ritenuta al centro di tutta la Gallia [nell’attuale territorio tra la Senna e la Loira]. Chi è impegnato in qualche controversia, da ogni regione qui si reca e si attiene alla decisione e al verdetto dei druidi».

L’inevitabile declino

Lo straordinario prestigio esercitato dai druidi non durò a lungo. Nel tempo, forse a causa del coinvolgimento in questioni politiche e giudiziarie, essi persero la fiducia e la stima dei popoli. Ma fu probabilmente la crescente influenza della cultura romana a modificare profondamente questa cultura originaria, trasformando le abitudini delle classi più abbienti e sgretolando le credenze tradizionali, tra cui la fede nel potere dei sacerdoti. L’unico druido di cui conosciamo il nome era il capo degli edui, Diviziaco, che chiese aiuto ai romani contro Ariovisto; divenne primo magistrato della sua città e collaborò attivamente alla conquista romana, divenendo amico di Cesare.

Con la conquista romana, gli avversari dell’Urbe furono eliminati e gran parte della nobiltà assimilò i valori di Roma. Coloro che rivendicarono questo titolo alcuni decenni più tardi non erano altro che indovini o maghi di scarsa levatura: nessuno di questi aveva ricevuto la rigida educazione orale che durava vent’anni, nei quali gli accoliti ricevono e coltivano l’immensa conoscenza dagli anziani druidi.

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