Epifanie del dolore

di Andrea Marcigliano

 

Guardo, da giorni, dibattiti e servizi su quanto sta accadendo tra Israele e Gaza .

Dibattiti con ben pochi interventi sensati. Ancora meno competenti.. e, talvolta, quelli di coloro che sono o sarebbero essere competenti, corrotti dalla malafede.

 

Masochista. Mi dirà qualcuno. O, peggio, sadico. Ti diverti a vedere il dolore, la sofferenza, la morte…

No. Non mi diverto. Però… osservo. E, osservando, capisco tante cose. Su quelle genti che soffrono… e, soprattutto, su di noi. Che quella sofferenza, quel dolore, guardiamo, spesso con occhio morboso, attraverso un video.

Lontani, al sicuro. Al caldo.

 

Restiamo, spesso, stupiti. Di fronte a manifestazioni del dolore dal sapore… antico. Madri, spose, donne che urlano disperate, si stracciano le vesti. Si strappano i capelli e si feriscono le carni con le unghie.

Le prefiche. Ancora presenti, fino a metà ‘900, nel nostro Sud. De Martino ha scritto, su questo tema, pagine memorabili.

 

Antico uso. Non diverse dalle donne troiane che piangevano sposi e figli uccisi da Achille. Così in Omero.

 

Ma ci lasciano stupiti anche i volti di pietra degli uomini. Altra manifestazione, epifania, del dolore. Quella del silenzio. Degli occhi asciutti. Ci sono le donne per piangere e urlare. Gli uomini tacciono. Covano il loro dolore. E la vendetta.

 

Sono atteggiamenti cui non siamo più adusi da molto, moltissimo tempo. La sola idea di accompagnare un figlio alla tomba, o di salutarlo mentre va a combattere, ci repelle. Ci appare contro-natura.

 

Noi siamo la società in cui, quando piove, i genitori cercano di entrare con le auto nell’atrio delle scuole. Non sia mai che i bimbi – anche Marcantoni liceali – rischiassero di bagnarsi… una generazione idrosolubile, evidentemente.

Ma questo non significa che amiamo i nostri figli più degli… altri. Certo, li trattiamo come fossero oggetti di porcellana. Pronti a tutelarli da ogni rischio e offesa… anche al di là di ciò che il buon senso consiglierebbe.

Ma non ci occupiamo veramente di loro. Deleghiamo la loro crescita e formazione alla scuola, nella migliore delle ipotesi. Ai Media, sempre più spesso.

Ci preoccupa la loro incolumità fisica. Le malattie, i vaccini. Di ciò che avviene nelle loro menti e nei lori cuori ci disinteressiamo. O ci prestiamo attenzione solo occasionalmente, quando certi problemi emergono con violenza.

 

Sui figli, sui giovani, nella loro (dis)educazione, proiettiamo ciò che siamo noi stessi. Totalmente autoreferenziali. Preoccupati solo del nostro benessere. Della nostra sopravvivenza in vita.

Lo abbiamo dimostrato ampiamente durante la, cosiddetta, pandemia.

Un’intera generazione cui è stata rubata la vita e la giovinezza. Per la vigliaccheria degli adulti e dei vecchi. Per la loro, assurda e insensata, paura di morire.

Ed è per questo che non possiamo comprendere certe manifestazioni di dolore. Perché non abbiamo più la capacità di sentire con forza le emozioni. Di viverle, magari in modo scomposto ed eccessivo… ma di viverle, accidenti. E di manifestarle.

 

Siamo riversi su noi stessi. Autoreferenziali. Autistici emozionali. Anafettivi. Narcisisti.

E, in buona sostanza, l’unica emozione, l’unico dolore che siamo capaci di provare e manifestare, è la paura.

 

La nostra paura di morire. Della nostra morte.

Una paura che ci anestetizza da ogni altro dolore. Da ogni autentica emozione.

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