Divieto di propaganda elettorale da parte delle PA nell’ambito di elezioni amministrative locali

N. 79 SENTENZA 9 marzo – 7 aprile 2016

Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Reati elettorali – Divieto di propaganda elettorale da parte delle pubbliche amministrazioni nell’ambito di elezioni amministrative locali – Trattamento sanzionatorio. – Legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), art. 29, comma 5. – (T-160079) (GU 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale n.15 del 13-4-2016)

 

LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici  :Giuseppe  FRIGO,  Giorgio  LATTANZI,  Aldo  CAROSI,   Marta
  CARTABIA,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,   Silvana
  SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,  Franco  MODUGNO,  Augusto
  Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,

ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  29,  comma
5, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione  diretta  del  sindaco,
del  presidente  della  provincia,  del  consiglio  comunale  e   del
consiglio provinciale), in relazione al successivo comma 6,  promosso
dal Tribunale ordinario di Catania, nel procedimento penale a  carico
di N.G. ed altri, con ordinanza del 1° dicembre 2014, iscritta al  n.
42 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale
della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 2015. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio  del  9  marzo  2016  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 1° dicembre 2014 il Tribunale ordinario  di
Catania, in composizione monocratica, ha sollevato -  in  riferimento
all'art.  3  della   Costituzione   -   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 29, comma 5, della legge 25 marzo  1993,  n.
81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del
consiglio comunale e del  consiglio  provinciale),  in  relazione  al
successivo comma 6 della medesima disposizione. 
    Il rimettente e' chiamato alla celebrazione di  un  giudizio  per
fatti asseritamente riconducibili al divieto di propaganda elettorale
da parte delle  pubbliche  amministrazioni  nell'ambito  di  elezioni
amministrative. 
    In particolare, e' contestato  a  N.G.,  nella  sua  qualita'  di
direttore generale di Azienda sanitaria, di essersi fatto promotore e
organizzatore, in data 5 giugno 2008 -  dunque  nell'imminenza  delle
elezioni del Sindaco del Comune  di  Catania,  del  Presidente  della
Provincia e del Consiglio comunale, indette per  i  giorni  15  e  16
giugno 2008  -  di  due  incontri  nei  locali  del  predetto  plesso
ospedaliero, finalizzati a consentire a tre candidati della  medesima
area  politica  di  esporre  ai  partecipanti  il  proprio  programma
elettorale. N.G., nella veste di ufficiale rappresentante  dell'ente,
avrebbe messo a disposizione due sale e  avrebbe  poi  convocato,  in
orario di lavoro, il personale dipendente della struttura  sanitaria,
affinche' prendesse parte  all'incontro.  Ai  tre  candidati  -  N.F.
(figlio di N.G.), S.R. e C.G.  -  e'  contestato  il  concorso  nella
condotta addebitata a N.G. 
    In relazione a tali fatti si procede nel giudizio a  quo  per  il
delitto di cui all'art. 29, commi 5 e 6, della legge n. 81 del  1993:
il comma 6 vieta a tutte le  pubbliche  amministrazioni  di  svolgere
attivita' di propaganda di qualsiasi genere, ancorche' inerente  alla
loro attivita' istituzionale, nei trenta giorni antecedenti  l'inizio
della campagna elettorale e per tutta  la  durata  della  stessa;  il
comma 5 stabilisce che chi contravviene al divieto di cui  al  citato
comma 6 e' punito con la multa da lire un milione  a  lire  cinquanta
milioni. 
    In punto di rilevanza, il rimettente afferma che i  fatti  per  i
quali si procede sono sussumibili,  sotto  il  profilo  soggettivo  e
oggettivo, nella fattispecie incriminatrice  prevista  dall'art.  29,
comma 6, della legge n. 81 del 1993,  e  che  un  accoglimento  della
questione prospettata determinerebbe l'assoluzione degli imputati per
non essere piu' il fatto previsto dalla legge come reato. 
    Nel merito, il Tribunale ordinario di Catania rileva  che  l'art.
29, comma 5, della legge n. 81  del  1993,  nella  parte  in  cui  si
applica  alla  fattispecie  di  cui  al  comma   6   della   medesima
disposizione, contrasterebbe con l'art. 3 Cost. 
    Ricorda il rimettente che disposizione analoga a quella censurata
era contenuta nell'art. 5  della  legge  10  dicembre  1993,  n.  515
(Disciplina delle campagne elettorali per l'elezione alla Camera  dei
deputati e al Senato della Repubblica), il quale vietava a  tutte  le
pubbliche amministrazioni di  svolgere  attivita'  di  propaganda  di
qualsiasi   genere,   ancorche'   inerente   alla   loro    attivita'
istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l'inizio della  campagna
elettorale e per la durata della stessa, ad eccezione delle attivita'
di  comunicazione   istituzionale   indispensabili   per   l'efficace
assolvimento delle funzioni proprie delle amministrazioni  pubbliche.
Tale divieto non era pero'  assistito  da  sanzione  penale.  Osserva
ancora il giudice a quo che la successiva legge 22 febbraio 2000,  n.
28 (Disposizioni per la parita' di accesso ai mezzi  di  informazione
durante le campagne elettorali e referendarie e per la  comunicazione
politica), all'art. 13, ha abrogato l'art. 5 della legge n.  515  del
1993, introducendo una nuova disciplina all'art. 9 della stessa legge
n. 28 del 2000. La disposizione da ultimo  ricordata  stabilisce,  al
comma 1, che, dalla data di convocazione dei comizi elettorali e fino
alla chiusura delle operazioni di voto, e' fatto divieto a  tutte  le
amministrazioni pubbliche di svolgere attivita' di comunicazione,  ad
eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili
per  l'efficace  assolvimento  delle  proprie  funzioni.  Secondo  il
rimettente, il citato art. 9, comma 1,  benche'  imponga  un  divieto
sovrapponibile    a    quello    della    disposizione     censurata,
rappresenterebbe un precetto sprovvisto di  sanzione,  in  quanto  il
successivo art. 10, rubricato  «Provvedimenti  e  sanzioni»,  non  ne
indicherebbe  alcuna  applicabile  in  caso   di   violazione   delle
disposizioni contenute nell'art. 9. 
    Cosi' ricostruito il quadro normativo di riferimento, il  giudice
a quo ritiene che la differenza di trattamento tra la condotta  posta
in essere durante le elezioni amministrative e la  medesima  condotta
tenuta   nell'imminenza   delle   elezioni   politiche   non    trovi
giustificazione, e si ponga percio' in contrasto con il principio  di
eguaglianza. A suo avviso, tale distinzione  non  potrebbe,  infatti,
plausibilmente trovare la sua ratio in un presunto diverso  grado  di
offensivita' delle condotte, determinabile a seconda della dimensione
dell'ambito territoriale in cui si svolge la competizione elettorale.
Infatti,  se  il  divieto  contenuto  nelle  citate  disposizioni  e'
preordinato a evitare il rischio  di  attivita'  propagandistiche  ad
opera di  amministrazioni  pubbliche  dirette  a  sostenere  liste  o
candidati,  sarebbe  evidente  l'identica  necessita'  di  preservare
l'imparzialita'  e  la  genuinita'  del  confronto  elettorale,   con
riferimento tanto alle elezioni politiche, quanto a quelle locali. 
    Secondo  il   rimettente,   la   rilevata   differenziazione   si
contrapporrebbe «a quel trend di omogeneita'» a  cui  sembra  essersi
ispirato, ormai da tempo, il legislatore nel disciplinare la  materia
della propaganda elettorale, e che e' stato evidenziato dalla  stessa
Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.  287  del  2001.  In  tale
decisione, dichiarando l'illegittimita' costituzionale dell'art.  29,
comma 5, della legge n. 81 del 1993, nella parte  in  cui  puniva  un
determinato  fatto  con   la   multa   anziche'   con   la   sanzione
amministrativa, la Corte costituzionale avrebbe osservato  come  tale
materia  sia  caratterizzata  «da  una   disciplina   sostanzialmente
applicabile a qualsiasi tipo di competizione elettorale, in  base  ad
un criterio di omogeneita'». 
    Secondo il Tribunale ordinario  di  Catania,  la  violazione  del
principio di eguaglianza deriverebbe «[t]anto piu'» dalla circostanza
che la previsione di una sanzione penale, in caso di  violazione  del
divieto di propaganda di cui all'art. 29, comma 6, della legge n.  81
del 1993, costituirebbe «una  singolare  eccezione»  a  fronte  della
larga depenalizzazione operata nei confronti  delle  misure  punitive
ricollegate all'inosservanza di gran parte dei precetti in materia. A
sostegno di tale assunto, il rimettente ricorda ancora la sentenza n.
287 del 2001, nonche' la piu' risalente  sentenza  n.  52  del  1996,
nella quale - dichiarando l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.
15, comma 17, della legge n. 515 del 1993, nella parte in cui  puniva
penalmente il fatto previsto dall'art. 7 della legge 24 aprile  1975,
n. 130 (Modifiche alla disciplina della propaganda elettorale ed alle
norme per la  presentazione  delle  candidature  e  delle  liste  dei
candidati  nonche'  dei  contrassegni   nelle   elezioni   politiche,
regionali, provinciali e comunali) - la  Corte  costituzionale  aveva
sottolineato come, in un contesto di complessiva decriminalizzazione,
era  rimasta  in  vigore,  «per  una   probabile   dimenticanza   del
legislatore», la previsione della sanzione penale. 
    Per le ragioni  ricordate,  il  Tribunale  ordinario  di  Catania
ritiene non manifestamente infondata  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 29, comma 5, della legge n. 81 del 1993,  in
relazione al successivo comma 6, per violazione dell'art. 3 Cost. 
    2.- E' intervenuto nel giudizio, con atto depositato il 21 aprile
2015, il Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello  Stato,  che  ha  concluso  nel
senso della manifesta infondatezza della questione. 
    Premette l'Avvocatura generale  che  il  divieto,  per  tutte  le
amministrazioni  pubbliche,  di  svolgere  attivita'  di   propaganda
istituzionale  e'   preordinato   a   garantire   il   principio   di
imparzialita' dell'agire amministrativo sancito dall'art.  97  Cost.,
al fine di prevenire i rischi di interferenza e le distorsioni che la
comunicazione degli enti pubblici potrebbe  determinare  rispetto  ad
una libera  consultazione  elettorale.  In  particolare,  il  divieto
mirerebbe ad evitare che  l'attivita'  di  comunicazione,  realizzata
dalle pubbliche amministrazioni durante il periodo elettorale, «possa
sovrapporsi ed  interagire  con  l'attivita'  propagandistica  svolta
dalle liste e  dai  candidati,  originando  una  forma  parallela  di
campagna elettorale, sottratta a qualsiasi tipo di regolamentazione»;
in  secondo  luogo,  il  divieto  sarebbe  diretto  ad  impedire   il
consolidarsi di un vantaggio elettorale a favore dei politici uscenti
nei confronti degli sfidanti, date le innumerevoli facilitazioni,  in
termini di comunicazione e visibilita', di cui i primi dispongono  in
via esclusiva e gratuita. 
    Cio' premesso,  la  difesa  statale  osserva  -  muovendo  da  un
presupposto  interpretativo  differente   da   quello   del   giudice
rimettente - che il divieto di  propaganda  in  capo  alle  pubbliche
amministrazioni, stabilito dall'art. 9 della legge n. 28 del 2000 non
e' affatto privo  di  sanzione,  in  quanto  il  successivo  art.  10
attribuisce all'Autorita' per  le  garanzie  nelle  comunicazioni  il
compito di perseguire le violazioni della legge n.  28  del  2000  e,
dunque, anche quelle dell'art. 9. 
    La scelta di un differente trattamento sanzionatorio,  a  seconda
che il divieto sia  violato  durante  le  elezioni  amministrative  a
livello  locale,  ovvero  durante  le  elezioni  politiche   (essendo
prevista la  sanzione  penale  nel  primo  caso,  e  invece  sanzioni
amministrative  disposte   dall'Autorita'   garante   nel   secondo),
rientrerebbe nella  discrezionalita'  legislativa,  che  puo'  essere
oggetto di censura solo ove manifestamente irragionevole  (e'  citata
l'ordinanza della Corte costituzionale n. 62 - recte: n.  262  -  del
2005, oltre alle sentenze n. 394 del 2006, n. 144 del  2005,  n.  364
del 2004, n. 287 del 2001 e n. 455 del 1998). 
    Nella  fattispecie,  la  violazione  del  divieto  di  propaganda
realizzata  dagli  enti  pubblici   nel   contesto   delle   elezioni
amministrative a livello locale sarebbe punita piu'  severamente,  in
quanto il piu' ristretto  ambito  territoriale  in  cui  si  svolgono
queste  ultime  determinerebbe  un  maggiore  condizionamento   delle
consultazioni elettorali di cui  si  intende  garantire,  invece,  un
libero  svolgimento,  privo  di  interferenze.  Anche  il   vantaggio
elettorale, in termini di visibilita', che  riceverebbe  il  politico
uscente nei  confronti  degli  altri  candidati  sarebbe  sicuramente
maggiore in tali contesti territoriali. 
    In conclusione, l'Avvocatura generale dello Stato ritiene che  la
censura  prospettata  sia   manifestamente   infondata,   in   quanto
l'esigenza di evitare che la comunicazione degli enti pubblici  possa
determinare  interferenze  e  distorsioni  rispetto  ad  una   libera
consultazione   elettorale   sarebbe   maggiormente   avvertita   con
riferimento alle consultazioni elettorali  amministrative,  le  quali
presentano una dimensione locale, rispetto alle altre  consultazioni,
che riguardano invece  l'intero  territorio  nazionale  o,  comunque,
regionale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Tribunale  ordinario   di   Catania,   in   composizione
monocratica,  solleva  questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 29, comma 5, della legge 25 marzo  1993,  n.  81  (Elezione
diretta del sindaco, del presidente della  provincia,  del  consiglio
comunale e del consiglio provinciale). Tale disposizione punisce  con
la  sanzione  della  multa  le  pubbliche  amministrazioni  che,   in
violazione del divieto loro imposto dal successivo comma 6,  svolgano
attivita' di propaganda di qualsiasi genere, anche se  inerente  alla
rispettiva attivita' istituzionale,  nei  trenta  giorni  antecedenti
l'inizio della campagna elettorale  per  le  elezioni  amministrative
locali, e per tutta la durata della stessa. 
    Secondo  il  giudice  rimettente,   la   disposizione   censurata
violerebbe  l'art.  3  della  Costituzione,  in  quanto,  sanzionando
penalmente le descritte condotte, poste  in  essere  dalle  pubbliche
amministrazioni  nell'imminenza  delle  elezioni   amministrative   a
livello  locale,  determinerebbe  un  trattamento   irragionevolmente
difforme rispetto  a  condotte,  asseritamente  identiche,  poste  in
essere  dalle  stesse  amministrazioni  in  prossimita'  di  elezioni
regionali, politiche ed europee: queste ultime condotte, infatti,  in
virtu' dell'art. 9 della legge 22 febbraio 2000, n. 28  (Disposizioni
per la parita'  di  accesso  ai  mezzi  di  informazione  durante  le
campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione  politica),
resterebbero esenti da qualunque sanzione. 
    2.- Un'identica questione era gia' stata sollevata  dal  medesimo
giudice, nel medesimo grado di  giudizio,  ma  era  stata  dichiarata
manifestamente inammissibile  da  questa  Corte,  per  oscurita'  del
petitum e per difetto di motivazione sulla  rilevanza  (ordinanza  n.
260 del 2011). Il giudice  a  quo  ha  ora  integrato  la  precedente
motivazione, descrivendo in modo esaustivo i  fatti  che  hanno  dato
origine al  procedimento  penale  e  individuando  con  chiarezza  la
questione   sollevata.   In   base   alla   costante   giurisprudenza
costituzionale, non vi sono pertanto ostacoli alla sua riproposizione
(sentenze n. 38 del 2009,  n.  287  del  2001  e  n.  176  del  2000;
ordinanza n. 369 del 2000). 
    3.- La disposizione censurata - art. 29, comma 5, della legge  n.
81 del 1993 - presidia con la sanzione penale della multa il precetto
stabilito dal successivo comma 6, che vieta  «a  tutte  le  pubbliche
amministrazioni di svolgere  attivita'  di  propaganda  di  qualsiasi
genere, ancorche' inerente alla  loro  attivita'  istituzionale,  nei
trenta giorni antecedenti l'inizio della campagna  elettorale  e  per
tutta la durata della stessa». 
    Il  giudice  rimettente  ricorda  che  analoga  disposizione  era
contenuta  nell'art.  5  della  legge  10  dicembre  1993,   n.   515
(Disciplina delle campagne elettorali per l'elezione alla Camera  dei
deputati e al Senato della Repubblica), il quale vietava a  tutte  le
pubbliche amministrazioni di  svolgere  attivita'  di  propaganda  di
qualsiasi   genere,   ancorche'   inerente   alla   loro    attivita'
istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l'inizio della  campagna
elettorale e per la durata della stessa, ad eccezione delle attivita'
di  comunicazione   istituzionale   indispensabili   per   l'efficace
assolvimento delle funzioni proprie delle amministrazioni pubbliche. 
    Tale divieto - rivolto, come risulta dall'art. 20 della legge  n.
515 del 1993, alle condotte poste in  essere  in  tutte  le  campagne
elettorali,  tranne  in  quelle  amministrative  in   ambito   locale
(regolate, appunto, dalla disposizione censurata)  -  era  assistito,
sottolinea il  giudice  rimettente,  da  una  sanzione  di  carattere
amministrativo e non penale. 
    Il giudice a quo mette, inoltre, in evidenza  che  la  successiva
legge n. 28 del 2000, abrogando, con l'art.  13,  l'appena  ricordato
art. 5 della legge n. 515 del 1993, avrebbe introdotto una disciplina
asseritamente sovrapponibile a quest'ultima, e a quella contenuta nel
vigente art. 29, comma 6, della legge n. 81 del 1993. 
    L'art. 9, comma 1, della legge n. 28 del  2000,  invero,  prevede
che «[d]alla data di convocazione dei comizi elettorali e  fino  alla
chiusura delle operazioni  di  voto  e'  fatto  divieto  a  tutte  le
amministrazioni pubbliche di svolgere attivita' di  comunicazione  ad
eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili
per l'efficace assolvimento delle proprie funzioni». 
    Muovendo dal  presupposto  interpretativo  secondo  il  quale  il
divieto appena menzionato non sarebbe assistito da  alcuna  sanzione,
il giudice a quo ne trae il convincimento che due condotte  identiche
sarebbero, attualmente, l'una penalmente punita - con disposizione di
carattere speciale e, perciò, applicabile alla  fattispecie  da  cui
origina la questione - e l'altra, invece,  non  sanzionata  in  alcun
modo, con conseguente irragionevole  disparità  di  trattamento,  in
violazione dell'art. 3 Cost. 
    Censura perciò l'art. 29, comma 5, della legge n. 81  del  1993,
in relazione al successivo comma 6, per violazione dell'art. 3 Cost.,
assumendo come tertium comparationis l'art. 9, comma 1,  della  legge
n. 28 del 2000. 
    4.- La questione, cosi' posta, non e' fondata. 
    4.1.-  Nell'ambito  dell'ampia   discrezionalita'   concessa   al
legislatore  nell'individuazione  delle  condotte  punibili  e  nella
configurazione del relativo trattamento sanzionatorio,  e'  ben  vero
che la costante giurisprudenza di questa Corte afferma che le  scelte
legislative  sono  sindacabili   ove   trasmodino   nella   manifesta
irragionevolezza  o  nell'arbitrio,  «come  avviene   a   fronte   di
sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette  da
alcuna ragionevole giustificazione» (ex multis, sentenze  n.  68  del
2012, n. 161 del 2009 e n. 324 del 2008). 
    Diversamente da quanto accadeva nelle questioni decise da  questa
Corte con le sentenze n. 287 del 2001 e n. 52  del  1996,  richiamate
dal rimettente, le fattispecie poste a  raffronto  nel  caso  ora  in
esame non sono, tuttavia, omogenee e l'art. 9, comma 1,  della  legge
n. 28 del 2000  non  e',  quindi,  correttamente  utilizzabile  quale
tertium  comparationis  a  sostegno   dell'asserita   disparita'   di
trattamento. 
    Tale ultima disposizione e' inserita nel contesto di  un'organica
disciplina della comunicazione politica, dettata  per  i  periodi  di
campagna  elettorale  relativi  ad  ogni  tipo  di  consultazione  ed
elezione, e fa divieto alle amministrazioni  pubbliche  di  «svolgere
attivita' di comunicazione» durante tali periodi. Il riferimento alle
"pubbliche amministrazioni" deve essere inteso come  un  rinvio  agli
enti e agli organi, non gia' ai singoli soggetti titolari di  cariche
pubbliche, anche se  le  condotte  e  i  comportamenti  vietati  alle
amministrazioni non possono che essere realizzati da  questi  ultimi.
Ratio della  disposizione  e',  infatti,  evitare  che  le  pubbliche
amministrazioni  forniscano,  attraverso  modalita'  comunicative   e
contenuti informativi non neutrali, «una rappresentazione suggestiva,
a fini elettorali, dell'amministrazione e dei suoi  organi  titolari»
(sentenza n. 502 del 2000). L'art. 9, comma 1, della legge n. 28  del
2000 non intende, percio',  impedire  in  assoluto  le  attivita'  di
comunicazione:  le  consente,  purche'  siano  effettuate  in   forma
impersonale e risultino indispensabili  per  l'efficace  assolvimento
delle funzioni attribuite alle amministrazioni pubbliche,  alla  luce
della necessaria informazione  dei  cittadini  e  degli  obblighi  di
trasparenza  gravanti  sulle  amministrazioni  stesse.   Il   divieto
contenuto nel citato art. 9, comma 1, della legge n. 28 del 2000,  in
sostanza, mira ad evitare che la  comunicazione  istituzionale  delle
amministrazioni venga piegata ad  obiettivi  elettorali,  promuovendo
l'immagine dell'ente, dei suoi componenti  o  di  determinati  attori
politici, in violazione degli obblighi di neutralita' politica  degli
apparati amministrativi (art. 97 Cost.), della necessaria parita'  di
condizione tra i candidati alle elezioni e  della  liberta'  di  voto
degli elettori (art. 48 Cost.). 
    Va, inoltre, sottolineato, diversamente da  quanto  asserisce  il
giudice a quo, che tale divieto non resta privo di sanzioni, poiche',
nel sistema desumibile dalla legge n. 28 del 2000, la fattispecie  di
cui all'art. 9, comma  1,  e'  soggetta  al  controllo  e  al  potere
sanzionatorio amministrativo dell'Autorita'  per  le  garanzie  nelle
comunicazioni, in base all'art. 10, comma 8, della stessa legge n. 28
del 2000, come del resto risulta dall'attivita'  in  concreto  svolta
dall'Autorita' garante. 
    La  tipologia  di   sanzioni   irrogabili   dall'Autorita'   (che
consistono nell'ordine di trasmettere o pubblicare  messaggi  recanti
l'indicazione della  violazione  commessa,  ovvero  rettifiche  della
comunicazione effettuata) conferma, d'altra parte,  che  destinatarie
del divieto sono direttamente  le  amministrazioni  pubbliche  e  non
personalmente i soggetti che ne esercitano le funzioni. 
    Non e' un caso, inoltre, che l'Autorita' per  le  garanzie  nelle
comunicazioni verifichi il rispetto del divieto di  cui  all'art.  9,
comma 1, della legge n. 28 del 2000 anche con riferimento a  condotte
poste in essere nell'imminenza di elezioni amministrative  a  livello
locale,  evidentemente  sul  presupposto  che  esso  si  riferisca  a
fattispecie distinguibili da quelle previste dall'art. 29,  comma  6,
della legge n. 81 del 1993. 
    In  definitiva,  il  divieto  ora  descritto   e'   precipuamente
indirizzato   a   regolare   l'attivita'   di   comunicazione   delle
amministrazioni pubbliche,  in  stretta  attinenza  ai  loro  compiti
istituzionali  e  allo  scopo  di  evitare  che  tali  compiti  siano
perseguiti con modalita' comunicative non corrette. 
    La fattispecie contenuta nell'art. 29, comma 6, della legge n. 81
del 1993, che contiene il divieto assistito dalla sanzione penale, e'
invece riferita alla  propaganda  «di  qualsiasi  genere»,  ancorche'
inerente  all'attivita'  istituzionale  delle  amministrazioni.  Tale
fattispecie riguarda condotte ulteriori e diverse rispetto  a  quelle
poste  in  essere  nello  svolgimento  delle  funzioni  istituzionali
dell'amministrazione (in tal senso anche Consiglio di Stato,  sezione
quinta giurisdizionale, sentenza 23 marzo 2000, n.  1593),  rivelando
una formulazione piu' ampia rispetto a  quella  di  cui  all'art.  9,
comma 1, della legge n. 28 del 2000. 
    Inoltre,  il  divieto   dettato   dalla   norma   sospettata   di
incostituzionalita', pur essendo testualmente rivolto anch'esso  alle
pubbliche amministrazioni, per il principio della personalita'  della
responsabilita' penale non  puo'  che  indirizzarsi  direttamente  ai
soggetti  titolari  di  cariche  pubbliche  a  livello  locale.  Tali
soggetti infrangono il divieto se svolgono attivita'  di  propaganda,
ancorche' inerente all'attivita' istituzionale delle  amministrazioni
di  cui  fanno  parte,  utilizzandone  mezzi,  risorse,  personale  e
strutture. Se candidati essi stessi, ferme restando  le  disposizioni
in tema di ineleggibilita' a livello locale, ben possono esercitare i
relativi diritti costituzionalmente  garantiti,  e  percio'  svolgere
anche attivita' di propaganda elettorale: ma, anche in tale  ipotesi,
il  divieto  in  esame  esige  che  cio'   facciano   al   di   fuori
dell'esercizio delle proprie  funzioni  istituzionali  e,  di  nuovo,
senza utilizzare mezzi, risorse, personale e strutture assegnati alle
pubbliche amministrazioni di appartenenza. 
    L'art. 29, commi 5 e 6,  della  legge  n.  81  del  1993  delinea
percio' una fattispecie obiettivamente diversa da quella disciplinata
all'art. 9, comma 1, della legge n. 28 del 2000. Cio'  non  impedisce
di  riscontrare  che   anch'essa   presidia   gli   stessi   principi
costituzionali: giacche' anche  il  titolare  di  cariche  pubbliche,
candidato o meno che sia, infrangendo il  divieto,  coinvolge  l'ente
nella  competizione  politico-elettorale,  violandone  il  dovere  di
neutralita' politica (art. 97 Cost.),  provoca  un'alterazione  delle
eguali opportunita' dei candidati  e  influisce  illecitamente  sulla
formazione del convincimento degli elettori (art. 48 Cost.). 
    Infine, a conferma ulteriore della non sovrapponibilita'  tra  le
due fattispecie messe a confronto dal giudice a quo,  va  notato  che
l'arco temporale di efficacia dei  due  divieti  non  necessariamente
coincide, poiche', mentre l'art. 29, comma 6, della legge n.  81  del
1993 circoscrive  il  divieto  all'intervallo  tra  i  trenta  giorni
antecedenti l'inizio della campagna elettorale e  la  conclusione  di
questa, l'art. 9, comma 1, della legge n. 28 del 2000 lo fa decorrere
dalla data di convocazione dei comizi elettorali,  estendendolo  fino
alla chiusura delle operazioni di voto. 
    Alla luce della obbiettiva  differenza  tra  le  due  fattispecie
messe a raffronto, la questione non e' quindi fondata. 

per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 29, comma 5, della legge 25 marzo  1993,  n.  81  (Elezione
diretta del sindaco, del presidente della  provincia,  del  consiglio
comunale e del consiglio provinciale),  in  relazione  al  successivo
comma 6, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal
Tribunale ordinario di Catania, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 marzo 2016. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
                      Nicolo' ZANON, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 7 aprile 2016. 
 
                           Il Cancelliere 
                        F.to: Roberto MILANA 
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