I pericoli dell’immigrazione spiegati senza tabù

I pericoli dell'immigrazione spiegati senza tabù

I pericoli dell'immigrazione spiegati senza tabù
“Poche sono le politiche pubbliche che hanno bisogno di analisi accessibili e spassionate quanto l’immigrazione. In questo libro voglio scuotere le posizioni che si sono ormai polarizzate: da un lato l’ostilità nei confronti dei migranti, intrisa di accenti xenofobi e razzisti, ampiamente diffusa tra i comuni cittadini, dall’altro lo sprezzante ritornello delle élites liberali, condiviso dagli studiosi delle scienze sociali, secondo cui la politica delle porte aperte è un imperativo etico che in più garantisce grandi benefici.”

L’economista Paul Collier nel suo nuovo saggio ragiona sull’accelerazione degli spostamenti di massa. A colpi di numeri, dimostra che la strategia delle porte aperte non è vincente: serve controllo.

L’immigrazione non è un tema neutro. Forse perché in un mondo globalizzato tocca le vite di tutti. Le vite di chi viene lasciato indietro e non riesce a scappare da certi Paesi. Le vite di chi fa enormi sforzi per andarsene. Le vite di chi vede il proprio Paese riempirsi di persone che arrivano da lontano portando una cultura diversa, non sempre facilmente integrabile.

L’immigrazione è un tema in cui spesso l’approccio è ideologico. Si va dalla politica del «vogliamoci bene», o del senso di colpa da ex colonialisti, che piace a sinistra ai proclami di un certo tipo di destra che immaginano «muri» difficilmente edificabili. Più raro che qualcuno si metta a esaminare il fenomeno con piglio scientifico, numeri, formule e grafici alla mano. Ci ha provato Paul Collier uno dei massimi esperti al mondo di economie africane (dirige il centro studi dedicato dell’Università di Oxford). Il risultato è il suo saggio “Exodus. I tabù dell’immigrazione”. Nel libro ci sono praticamente solo tesi con riscontri attendibili, argomentate sulla base di studi scientifici. Per carità, non saranno tutte giuste però per metterle in discussione servono altri studi e non si possono liquidare con il solito parapiglia da talk show.

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E di sicuro qualcuno sarà sdegnato con Collier, di sinistra e consulente di Tony Blair, perché la politica delle porte sempre aperte ne esce molto male. In alcuni capitoli rovescia l’ottica abituale e fa un’analisi dei Paesi da cui si emigra, con grande attenzione alla situazione di chi resta. Spesso chi va via è chi ha la forza (economica o morale) di scappare. Dietro di sé lascia i più deboli e i più poveri. Quando a scappare è una minoranza vessata è molto probabile che il governo non democratico che la vessa diventi ancora meno democratico. Collier cita l’esempio dello Zimbabwe di Mugabe da cui è fuggito più di un milione di persone. Certo, in altri casi chi è emigrato in Paesi democratici diventa un tramite, diffonde quello stile di vita e di comportamento anche in patria. Tutto però dipende dalla possibilità e dalla volontà di rientrare che spesso mancano. Capo Verde ha una forte emigrazione e il suo sistema di governo migliora; l’Eritrea altrettanto e non ne trae alcun beneficio. Haiti, per fare un altro esempio, ha perso l’85% della popolazione istruita. E le famose rimesse? Non sembra siano mai davvero in grado di far decollare un Paese povero. Collier lo spiega bene: «I movimenti migratori che fanno la differenza non sono quelli diretti verso le città dei Paesi ad alto reddito, ma quelli diretti verso le città degli stessi Paesi a basso reddito ( africani ad esempio, ndr )». Insomma, alla fine andarsene all’estero può essere un danno verso coloro, più deboli che restano a casa.

Quanto agli effetti sui Paesi ospitanti sono vari. Ma Collier ha il coraggio di mettere in luce questioni che la politica nasconde sistematicamente sotto il tappeto: «Nei Paesi ospitanti, gli immigrati costruiscono colonie che assorbono risorse destinate ai ceti meno abbienti della popolazione locale con cui entrano in competizione e di cui minano i valori». Oppure ha il coraggio di mettere in discussione il multiculturalismo che livella tutto: «Sono proprio i migranti che, andandosene, votano a favore del modello sociale dei Paesi ad alto reddito… Se un tenore di vita decente è un qualcosa da apprezzare, allora sulla base di questo parametro non tutte le culture si equivalgono». Oppure ha il buon senso di dire che non tutti i migranti sono uguali, per questioni culturali che nulla hanno a che vedere con la razza, e che quindi ci sono migrazioni facilmente integrabili e altre molto meno gestibili. In tutti i casi però ha un impatto fondamentale la questione numerica. Ovvero l’immigrazione diventa un fattore destabilizzante solo se lo spostamento di persone supera determinati parametri. Quando succede si sviluppano due fenomeni già studiati anche da un altro ricercatore, Robert Putnam. Il primo è il fattore tartaruga: «I cittadini autoctoni di una comunità ad alta densità di immigrati tendono a chiudersi in se stessi, a diffidare di quanti li circondano, a impegnarsi di meno in attività sociali…». Il secondo è che più è grande una comunità di immigrati meno questa tende a integrarsi. Collier dimostra anche che senza un’azione di controllo non c’è modo che la curva dell’immigrazione rallenti da sola. E il non controllarla all’inizio porta al panico. Con politiche di chiusura tardiva, spesso ingiuste e totali, che non risolvono il problema della diaspora che ormai c’è e si deve integrare. E spesso a questo punto a pagare un costo molto alto sono i migranti.

Non piacerà a molti ma Collier, dati alla mano, ha un’idea chiara: l’immigrazione ad altissimo ritmo è un fenomeno transitorio ma che può avere effetti duraturi. Senza controllo l’immigrazione renderà tutto più complicato. Controllarla non significa essere xenofobi o razzisti, anzi significa impedire che si rischi di diventarlo.

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