La fine del Capitale è l’inizio del Capitalismo

La fine del Capitale è l’inizio del Capitalismo

La fine del Capitale è l’inizio del CapitalismoChiunque provi a parlare di sfruttamento del lavoro ed economica capitalistica, viene tacciato – oggi giorno – di anacronismo, biasimato di agitare i pugni in nome di un mondo obsoleto e superato, intriso della polvere di un passato che non c’è più.

A detta dei vari Renzi e Sallusti, la nostra dovrebbe essere un’epoca nuova, diversa, “avanzata”, lontana anni luce dalle categorie “ottocentesche” continuamente evocate da alcune tra le formazioni politiche e dai sindacati; “validi” esponenti dell’opinione pubblica promuovono la dicotomia vecchia/nuova politica creando un immaginario ibrido, indefinito, in cui le ideologie si mischiano e dissolvono, contribuendo a fare in modo che la crisi dell’economia degli stati non venga percepita come la risultante di una serie di scelte amministrative e strategie di governo, bensì come il “naturale” punto ascendente della parabola finanziaria. E i paesi occidentali, dagli Stati Uniti a quelli europei – dal canto loro – si sono comodamente adattati a tale scenario abbandonando le “idee” per riformulare le proposte elettorali in “nuove” formazioni politiche in linea col neoliberismo.

Tutto ciò per provocare la stasi del cambiamento politico possibile, l’aprassia delle classi dirigenti e subordinate: il “contrarsi del fare concettuale”. Al contrario di quanto pensano alcuni “visionari” della rivoluzione individuale, l’infecondo immaginario di cui sopra non corrisponde affatto alla fenomenologia della crisi del capitale, ma al suo stadio evolutivo.

La fine del Capitale è l’inizio del CapitalismoSolo una settimana fa mi è capitato di partecipare ad un seminario di filosofia ed economia politica, organizzato dalla Società Filosofica Italiana, durante il quale ho gradito, più che la proposta speculativa “comunitarista”, la definizione di “assoluto” che Diego Fusaro – tra i referenti – ha utilizzato per descrivere il volto nuovo del capitalismo; esso sarebbe assoluto nel senso di “ab-solutus”, ovvero “libero da qualsiasi vincolo” che impedisca di rincorrere la metafisica dell’illimitatezza, dell’accumulo, della “produzione per la produzione” cui è votato.

Non solo il liberismo non ha i giorni contati, ma afferma ogni giorno se stesso nell’economia della “mondializzazione”, in un vero e proprio sistema di dominio che, attraverso il consolidamento dei consensi delle masse, si mantiene servendosi tanto della finanza usuraia quanto del condizionamento delle dinamiche sociali. Essenzialmente, mentre l’alta finanza porta via “valore” al lavoro -causandone la crisi e l’eclissi – e alla proprietà attraverso la precarizzazione e il sofisticato racket del mutualismo, il “capitalismo assoluto” crea, nell’immaginario collettivo, “valori” di (im)produttività che saturano “il reale e il simbolico” cosicché la mercedivenga misura e scopo di ogni singola azione umana (come scriveva anche Marx nel primo libro de “Il Capitale“).

Se, dunque, dovessimo ripercorrere le fasi del sistema capitalistico nel tentativo di individuare il momento storico in cui ha dato principio alla sua evoluzione, quello che verosimilmente riterremmo il più convincente sarebbe il ventennio che va dalla seconda metà degli anni ’60 agli ’80, quando – “emancipandosi” dalla borghesia, propria classe genitrice – il capitalismo ha inaugurato gli anni’90 con il “tradimento” dei valori borghesi della stabilità e del fordismo per fondarsi esattamente sugli opposti: disoccupazione, precarietà, instabilità. Ora che si è svincolato dalle esigenze di produzione e il neoliberismo è l’unica ideologia sopravvissuta, il post-capitalismo non è più obbligato a conquistare la politica: gli è sufficiente manovrarla, rimproverarla, controllare che segua perfettamente i dettami della tecnocrazia finanziaria. Il nostro secolo, dunque, più che presagire l’apice dell’avanzamento del progresso e del cambiamento, dichiara la morte dell’homo faber; il cinico disincantamento dell’uomo nell’uomo che sfocia nell’aporia della rinuncia al fare progettuale.

Quella che ci si presenta pare l’immagine fatalistica di un presente angoscioso e immutabile, dove l’unica via d’uscita possibile sembra l’attesa di un altrettanto fatale degenerazione del capitale che, dicono, “prima o poi verrà”; qui si ferma il nichilismo diffuso di chi sospende il proprio percorso in virtù di questa attesa, o guarda al passato di cui è nostalgico con l’auspicio di recuperare una soluzione preconfezionata e dogmatica che, si spera, funzioni.

Al contrario, il panorama che abbiamo descritto è sì il risultato dell’autonomizzazione del capitale rispetto al politico e all’umano, ma anche la conseguenza di un’assenza, la vis critica di una “classe” -intellettuale, politica, economica e sociale- che restituisca un linguaggio agli oppressi e rielabori con intelligenza il proprio statuto ideologico. Probabilmente, è proprio in questa lettura del mondo, nel dis-velamento delle dinamiche del sistema, che consiste l’eredità del marxismo; la quale -ai fini dell’ultima riflessione- si fonda, soprattutto, nella necessità evidente di scalfire e mutare lo stato di cose presenti, partecipare da protagonisti allo scontro dialettico, riconoscere nell’indispensabile e nel necessario il “moto” primo della trasformazione. Dopo tutto, se la storia ha davvero bisogno di una spinta, non si può rimanere ad aspettarla…

Martina Patriarca

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