La Colonizzazione sottile

La Colonizzazione sottile

La Colonizzazione sottile

Il testo che segue è stato originariamente pubblicato nel libro “Contro l’Americanismo”, scritto da Marco Tarchi ed edito da Laterza, che raccoglie una serie di articoli e saggi estremamente densi e importanti sul tema dell’americanismo.

Lo pubblichiamo qui per gentile concessione dell’autore, per la stretta pertinenza con il tema di questo Speciale del Ribelle, e per invogliare chi ancora non lo avesse fatto a procurarsi questo libro straordinario (qui).

“Gli Stati Uniti ci hanno colonizzato l’anima”. Con questa frase il regista tedesco Wim Wenders ha bollato qualche anno fa lo stato di sudditanza psicologica che affligge ormai stabilmente la cultura e la società europee di fronte al Grande Fratello d’oltre Atlantico; e nel pronunciarla, forse, si esprimeva anche la confessione di un contagio ormai contratto, testimoniato dalle ripetute e sempre più frequenti incursioni di questo artista creativo nell’inquieto caleidoscopio degli States. Con maggiore passione gli ha fatto poi eco l’amico e collega Werner Herzog, che, nel giustificare l’ambientazione del suo film Dove sognano le formiche verdi fra gli aborigeni australiani minacciati nelle ultime sopravvivenze della loro identità dall’invasione del modello di vita occidentale, ha commentato: “Temo che fra qualche anno non resterà altro che la cultura dei McDonald’s su questa terra”.

Che ad emettere sentenze così impietose e penetranti siano due maestri dell’arte cinematografica, due uomini di spettacolo, e non degli scienziati, degli storici o dei letterati, non deve sorprendere, giacché è proprio puntando sullo spettacolo ed operando sul piano dell’immagine che l’impresa di esportazione dell’American way of life ha vinto la sua battaglia più impegnativa.

Facciamo un passo indietro. Sono passati solo poco più di due lustri da quella metà degli anni Settanta che segnò per il modello di società nordamericano il punto più basso di favore nell’opinione pubblica internazionale e nei media. I canali televisivi di tutto il mondo trasmettevano le immagini dell’ingloriosa fuga dell’ultimo ambasciatore statunitense da Saigon, dell’accalcarsi disperato di aspiranti profughi respinti con brutalità dai marines pronti all’evacuazione e all’abbandono di gran parte dei loro collaboratori locali. Cambogia e Vietnam sparivano dal dominio degli Usa. Due anni prima, l’esplosione del caso Watergate aveva lacerato l’immagine di trasparenza della puritana democrazia di Washington. Nel 1972 il dollaro era sprofondato ai minimi storici sul mercato dei cambi. Nessuno avrebbe scommesso un soldo, allora, sulla pronta e prepotente ripresa del colosso ferito.

Eppure, fra la metà degli anni Settanta e quella del decennio successivo il processo si è invertito, ha integralmente mutato segno, e l’american dream risorto dalle ceneri è tornato a risplendere, ancor più attraente di prima, nell’immaginario dell’uomo europeo medio. Con una significativa variazione: che ad applaudirlo e a celebrarne i meriti si sono ritrovati quegli stessi intellettuali che ne avevano auspicato e frettolosamente commemorato la morte.

Ci si è più volte chiesti il perché di un così brusco cambiamento di rotta, e le risposte non sono mancate. Si è parlato di una reazione patriottica all’umiliazione militare subita, del forte rilancio economico, del vorticoso sviluppo della tecnologia, del nuovo corso politico inaugurato da Reagan. Tante ipotesi che hanno di fronte a sé altrettante smentite, dal momento che l’America degli anni Settanta e Ottanta ha conosciuto acute tensioni razziali e ampie fasce di miseria, alti tassi di disoccupazione e fallimenti di processi scientifici (come nel settore aerospaziale, rimasto a lungo paralizzato da esperimenti risoltisi in catastrofi), scandali e scacchi militari come in Iran e in Libano. La risposta giusta al quesito è un’altra: l’immagine degli Stati Uniti d’America nel mondo ha ripreso quota e capacità di espansione grazie alla sua onnicomprensività, all’impermeabilità ad ogni critica, al funzionamento di un apparato egemonico pazientemente costruito e collaudato nel corso degli anni. Nel momento del suo apparente crollo, l’immagine degli Usa celebrava in realtà il proprio trionfo, giacché teneva saldamente il centro di ogni processo comunicativo. Non va dimenticato che la passione per le vicende indocinesi che coinvolse milioni di studenti europei all’epoca del conflitto vietnamita era di importazione nordamericana: era nata dalla rabbia che i reduci rientrati dalle paludi asiatiche e i coscritti chiamati ad avvicendarli sfogavano per le strade delle grandi città degli Stati dell’Unione e da lì si era diffusa fra le giovani generazioni francesi, tedesche, britanniche, italiane. Era insomma un ulteriore segno dell’egemonia che gli Stati Uniti esercitavano sulla psicologia di chi dichiarava di volerne contrastare le scelte politiche, così come agli albori del movimento del Maggio 1968 vi era stato uno stimolo emulativo nei confronti delle rivolte scoppiate nel campus di Berkeley un paio di anni prima.

Si può dire senza timore di esagerare che nell’arco del XX secolo le classi dirigenti statunitensi hanno accuratamente preparato l’ascesa del loro paese a scenario esemplare e laboratorio sperimentale dei modelli sociali, psicologici e culturali che si proponevano di far adottare su scala planetaria, in ciò favoriti dalla mentalità universalistica ricevuta in dono dai Pilgrim Fathers fondatori e sancita nell’intangibile Costituzione americana.

Dopo aver rimosso il ricordo del genocidio pellerossa su cui aveva costruito la propria posizione di forza (servendosi abilmente, già in questa fase, del potere dell’immagine: perché pochi strumenti hanno raggiunto l’efficacia dell’epopea western nel circondare di un alone di straordinarietà lo stile di vita nordamericano e rendere popolare lo stereotipo del pioniere civilizzatore opposto al selvaggio indigeno: i relativi ripensamenti sono venuti a cose largamente fatte…), la ruling class statunitense per due volte ha promosso il paese di cui era alla guida al ruolo di arbitro e vendicatore dei torti subiti dall’Umanità nell’altro emisfero, facendone una parte in causa in altrettanti grandi conflitti ma al tempo stesso un’entità dotata della capacità di giudicare moralmente, quasi da una posizione di superiore estraneità, i propri nemici.

Mascherando la tutela di corposi interessi particolari con la pretesa di incarnare il ruolo dei paladini degli altrui diritti calpestati; minacciando di ritrarsi in uno sdegnato isolamento se i loro desiderata non fossero stati accolti – si pensi al comportamento di Wilson verso la Società delle Nazioni –; sfruttando l’indebolimento dei più temibili potenziali rivali, gli europei dissanguati da due guerre fratricide, e l’immaturità politica dei paesi del Terzo Mondo ancora soggetti alla fase “classica” e dichiarata del dominio coloniale; ergendosi infine a guida insindacabile del “mondo libero” creato dal duopolio di potenza da essi sottoscritto a Yalta, i governanti dell’Unione stars and stripes hanno guadagnato all’America una sorta di tabù, una presenza costantemente ed ossessivamente collocata in primo piano in qualunque settore dell’informazione.

Dato essenziale: questa vocazione all’egemonia non si è manifestata soltanto o soprattutto sul piano dei rapporti internazionali. Il paradigma della dipendenza dagli Usa si è trasferito all’interno di ciascuna nazione – partendo da quelle europee, addomesticate attraverso l’uso incessante dell’ambiguo concetto di “civiltà occidentale” – ed ha profondamente inciso sulle rispettive dinamiche sociali. L’idea di un mercato mondiale promossa e perseguita dai sostenitori di quel modello di società mercantile di cui gli Stati Uniti d’America sono l’incarnazione più perfetta e raffinata non poteva infatti andare disgiunta da quella dell’uniformità degli atteggiamenti e dei comportamenti dei suoi potenziali clienti e consumatori, il che promuoveva automaticamente l’American way of life alla funzione di paradigma a cui ogni concezione di vita collettiva si sarebbe dovuta adeguare per apparire accettabile: come è, di fatto, avvenuto.

Si prova oggi un certo imbarazzo ad avanzare una critica di questo modello esistenziale e a fustigare la caduta di senso e di gusto che l’americanizzazione di una consistente parte del mondo ha portato con sé; non tanto perché si debba temere la scontata levata di scudi dell’establishment intellettuale, specializzata in anatemi contro gli “antiamericani”, quanto piuttosto perché si viene colti dalla sensazione che tutto sia già stato detto contro questo processo di omologazione, e sia stato detto invano. La colonizzazione sottile dell’era americana, a differenza di quelle classiche, facilmente individuabile per le molte diversità (etniche, linguistiche, religiose, persino alimentari ed estetiche) esistenti fra dominatori e dominati, si fonda in effetti sull’osmosi, sull’assimilazione totale, su un ciclo psicologico che attiva nei dominati una preventiva richiesta di beni materiali e immateriali corrispondenti all’offerta programmata, in modo da garantire credibilità alla commedia del consenso su cui il rapporto di subordinazione del culturalmente debole al forte si regge.

I mezzi di informazione di massa sono la chiave di volta di questo sistema di controllo e dominio e ne assicurano la stabilità, fungendo talvolta da dispensatori di immagini pedagogiche esemplari, a volte invece da valvola di sfogo o da camera di decompressione degli istinti di rivolta dei dominati. I media sono al centro di quella “koiné culturale transnazionale”, il cui nucleo propulsore e irradiatore ha sede negli Usa, che è stata individuata come l’asse degli attuali assetti mondiali da uno dei più acuti intellettuali transitati, con un cammino sempre meno inconsueto, dalla sinistra contestatrice del Sessantotto ad un conservatorismo prodigo di lodi verso il neoliberalismo occidentale, Ernesto Galli della Loggia, che nel suo saggio Il mondo contemporaneo descrive il profilo di questa gigantesca lobby che detiene il monopolio dell’informazione, delle telecomunicazioni, delle trasmissioni, degli altri strumenti della cultura di massa. Nelle mani di tale “koinè” è “l’impero dell’antropologia e dell’immaginario degli uomini di tutta quanta la terra” e grazie ad essa il nostro tempo viaggia verso “l’unificazione culturale del mondo”.

L’azione di questo soggetto transnazionale condiziona tutti gli aspetti della dinamica sociale delle nazioni sviluppate e attende al varco, ancor più insidiosamente, quelle ancora in via di sviluppo. L’unificazione dell’impero dell’immaginario ha raggiunto un tale grado di perfezione che i suoi messaggi non necessitano più di alcun adeguamento o manipolazione al di fuori di quelli linguistici per raggiungere i diversi destinatari. I serials, i comics, i films e gli spots di successo sono gli stessi ovunque e creano nel pubblico le medesime sensazioni. DallasDinasty fanno registrare indici di ascolto simili in paesi situati in diversi continenti. Il meccanismo di omologazione affidato a questi strumenti di diffusione funziona ormai tramite una serie di automatismi e produce già un fenomeno di subappalto: registi, disegnatori, tecnici pubblicitari, musicisti dei territori colonizzati offrono nuova linfa al modello che li ha ispirati, riproducendolo più vero che al naturale sul loro suolo. Diventa così possibile esaltare il polivalente complesso culturale “occidentale” dichiarandolo fondato su un insieme di valori comuni sia ai dominanti che ai dominati, dal momento che la rinuncia a una creatività autonoma da parte delle culture autoctone e l’assuefazione ai parametri dominanti hanno fatto piazza pulita di ogni antagonismo significativo.

Tutto ciò vale per quanto concerne il processo di influenza del modello statunitense di comportamenti sociali sulla platea “occidentale”, la sua riduzione alla forma di merce e la sua esportazione attraverso il ciclo produzione/pubblicizzazione/distribuzione. Ma è sui contenuti di questo modello che la nostra attenzione deve principalmente soffermarsi.

I cantori dell’American way of life, quegli intellettuali che volentieri si definiscono di tendenza liberal e si accaniscono nella denuncia del “mito” dell’imperialismo culturale statunitense, tacciando di provincialismo ogni richiamo all’autonomia nazionale o continentale ovunque si manifesti – a sinistra, a destra o altrove –, non si stancano di accreditare alla loro terra promessa una poliedrica e vivace varietà di espressioni, di farne anzi il paradiso terrestre del pluralismo, il luogo ove a ciascuno è permesso di essere o diventare ciò che vuole. Quel che costoro trascurano di dire è che questa libertà di espressione, chiamata in causa in occasione di ogni temporanea eclissi dell’immagine ufficiale degli States per legittimare l’idea di un’“altra America”, può produrre dei frutti soltanto se viene esercitata all’interno del campo recintato di una ben determinata concezione dell’uomo e del mondo, i cui capisaldi sono considerati irrinunciabili.

La dialettica tra le diverse espressioni di questo monolitico paradigma è indiscutibilmente ampia e contiene forme in apparente estremo contrasto: Woody Allen e John Wayne, Henry Miller e Judith Kranz, i Peanuts di Schulz e i personaggi di Walt Disney, l’ascetismo progressista di Jimmy Carter e il conservatorismo di stile populista di Ronald Reagan. Al di fuori delle coordinate dettate dal modello c’è però il vuoto, il sospetto, l’emarginazione. Come ha denunciato Aleksandr Solzenicyn, una vittima esemplare di questo stato di cose, nello scandaloso e ormai dimenticato discorso pronunciato all’Università di Harvard, per il dissidente dal modello americano c’è il taglio del microfono, l’annegamento nella lunatic fringedei personaggi bizzarri, il disinteresse assoluto dei media, che è la traduzione morbida e contemporanea del meccanismo orwelliano di designazione delle “non-persone”. Una soluzione non meno pericolosa di quella, più cruenta, adottata dai regimi totalitari, in quanto, reprimendo la diversità senza violenza apparente ed annullando ogni possibilità di vita pubblica senza impedire la prosecuzione di un’esistenza privata, si pone al riparo dalle correnti (e lacunose) critiche rivolte dalla vulgata intellettuale diffusa alla repressione posta in atto dai sistemi politici autoritari.

L’individualismo, il culto narcisistico dell’io e la promozione dell’egoismo sociale, tradotto nell’imperativo del successo misurabile in dollari (ciascuno è ciò che ha) e nell’assimilazione del rapporto con gli altri ad un’insidiosa giungla di esasperate ed incrociate concorrenze, sono solo alcuni degli aspetti più evidenti e superficiali dello schema di comportamento “tipico” implicito nel modello americano che l’“impero dell’immaginario” individuato da Galli della Loggia si incarica di riprodurre in ogni angolo del pianeta. Sotto quella riduzione di ogni altra preoccupazione ad una radice economica che ossessiona la società mercantile c’è un’opera di sistematico sradicamento delle identità collettive funzionale agli obiettivi di una modernizzazione capitalistica sempre più spinta.

Il processo è complesso ma coerente. Ad una società senza storia di lungo periodo come quella statunitense, votata al culto del self made man, si addice più che ad ogni altra l’azzeramento di ogni legame non utilitario. L’escatologia secolarizzata dell’ideale della felicità in terra, la cancellazione della memoria e del senso del tempo e dello spazio a cui sempre più direttamente tendono le applicazioni della tecnologia avanzata; l’adozione di uno stile di rapporti intersoggettivi impersonale e burocratico concorrono allo stesso scopo: la razionalizzazione totale della vita collettiva, l’evacuazione delle esigenze spirituali, affettive o semplicemente non materiali nella sfera programmata del privato. Ovviamente, questi sono i tratti di un modello idealtipico, la cui traduzione in pratica è (fortunatamente) ostacolata da resistenze di vario ordine; ma non per questo la sua delineazione è meno inquietante, perché anche dal campo dell’utopia, come ci hanno dimostrato taluni esperimenti totalitari, possono giungere pericolose interferenze sulla realtà quotidiana.

Non avendo gli Stati Uniti d’America mai conosciuto, contrariamente a qualsiasi altra cultura del mondo, una fase comunitaria – avendola anzi respinta già al momento della loro fondazione, considerandola un difetto d’origine di quell’Europa da cui i primi coloni volevano prendere quanto più possibile le distanze –, la loro way of life non ammette come soggetto i gruppi primari, non concepisce una nozione specifica di popolo – per la quale la sua lingua non ha un termine ad hoc: il popolo o “la gente”, nella risonanza della parola people, è la stessa cosa –, non pone alla base del confronto sociale prima di tutto scelte di valore non negoziabili, ma conflitti di interessi, sottoponibili a mediazioni e manipolazioni continue.

Una società di individui atomizzati, privati di ogni senso di solidarietà che non sia quello delle convergenze occasionali attorno ad emozioni sollevate da gravi fatti di cronaca (fagocitati e sostituiti a ritmo continuo dal circuito massmediale), è in effetti la più funzionale alla visione della vita associata come un reticolo di relazioni fra clienti di un immenso mercato che le scienze sociali americane, con la loro ossessione per le tecniche quantitative e per una equiparazione dei comportamenti politici alle scelte “razionali” dei consumatori di beni economici, da almeno trent’anni si sforzano di imporre alle élites intellettuali di tutti i paesi, mentre l’apparato multimediale ed economico gestito dalle società multinazionali a capitale statunitense si incarica di smerciarne la versione volgarizzata sotto specie di marketing e di culto dei gadgets e degli status symbols presso le masse europee, asiatiche, africane o latino-americane.

Come accennavamo, alcuni fattori legati soprattutto alla persistenza di abitudini e mentalità tradizionali radicate in ciò che resta dell’America “profonda” hanno sino ad oggi impedito a questo modello partorito dall’ingegneristica sociale di realizzarsi compiutamente in tutto il paese. Non si deve credere comunque che gli strumenti impiegati per trasportare questo progetto di mutazione antropologica ideale sul piano della realtà siano rimasti confinati all’ambito della cultura in senso stretto e a quello, ad essa strettamente connesso, della suggestione pubblicitaria; l’obiettivo è stato perseguito sistematicamente e con il concorso delle più disparate tecniche. Fra queste occupa un ruolo di primo piano l’intervento urbanistico, che priva le città più moderne di un centro e sostituisce i tradizionali luoghi di aggregazione, come le piazze, con le più funzionali arterie di scorrimento. Gli interminabili boulevards di Los Angeles sono un punto d’arrivo del progetto, ma la logica “occidentale” che lo governa non trascura l’Europa. È ormai esperienza corrente constatare che i centri delle maggiori città europee si spopolano di qualsiasi insediamento abitativo per venire invasi fa sedi di uffici e centri di servizi; l’espulsione dall’antica cerchia urbana coincide con la consegna dei gruppi familiari dislocati ai villaggi-satellite periferici, sempre più anonimi e mercantili, in cui l’entità mononucleare celebra il suo forzato trionfo. La destrutturazione dei legami interpersonali estranei alla sfera del contratto sociale viene in tal modo completata.

Privato di ogni consapevole e desiderata appartenenza, o per meglio dire caricato di una serie molteplice di appartenenze reversibili e provvisorie, portatrici di lealtà incrociate e spesso in contraddizione (appartenenza a una professione, a una confessione religiosa, a un partito, a gruppi di interesse, ad associazioni del tempo libero, ecc.) che gli impedisce di assumere un’identità definita (e definitiva), l’individuo-tipo prefigurato dall’American way of life è il destinatario ideale del messaggio omogeneizzante. L’unico modo che ha a disposizione per distinguersi e non scivolare nell’emarginazione è omologarsi, seguire le indicazioni del modello che gli vengono trasmesse dalle mode e dai media, sfruttare i canali obbligati della mobilità sociale sentendosi sempre più necessariamente solo e in lotta con tutti i suoi simili, potenziali concorrenti nell’arena in cui si determinano, competitivamente, il successo e la realizzazione personale.

Il vero nemico di questo modello, che spesso viene definito egualitario ma è soprattutto omologante, non è la disparità di condizione sociale – che, anzi, gli è essenziale in quanto gli assicura le soddisfazioni simboliche e psicologiche connesse alla mobilità ascendente – ma la specificità, l’irriducibilità al medesimo, l’alterità rispetto agli standards che determinano la legittimità o meno di un comportamento o di un modo di pensare. Ciò spiega perché l’impresa di colonizzazione culturale statunitense si affidi, nei suoi messaggi esemplari, alla figura dell’eroe solitario, di cui le figure cinematografiche di Rocky o Rambo sono le ultime, e più efficaci perché più rozze, incarnazioni: l’uomo solo in lotta con il destino e/o con la società, la cui collocazione in un determinato contesto di relazioni è puramente casuale.

È questo il tipo umano che va catturando, per opera dell’“impero dell’immaginario”, il favore delle giovani generazioni in gran parte dei paesi del mondo. Il suo successo si è spinto così lontano da indurre alcuni commentatori a sostenere che quello che è stato denunciato come il “male americano” sia in realtà un male europeo o delle altre regioni del pianeta che ne denunciano gli avanzati sintomi; che quella che taluni considerano un’insidiosa colonizzazione a fini di egemonia geopolitica sia invece un’autocolonizzazione alla quale culture intorpidite ed esaurite farebbero ricorso per assicurarsi una continuità e un avvenire.

C’è indubbiamente un elemento di verità in questa osservazione, giacché il livello di creatività culturale e di originalità dei modelli sociali prodotti dall’Europa e da altre aree del mondo segnano il passo di fronte all’aggressiva concorrenza degli stili di vita made in Usa e di rado oppongono resistenza agli invasori. La forza di suggestione dell’American way of life ha però ben poco della vitalità barbarica che fu fatale ai grandi Imperi dell’antichità: essa è piuttosto l’effetto di un’opera pianificata e cerebrale di condizionamento delle coscienze che costruisce la propria forza sulla sistematica emarginazione dei potenziali concorrenti e sull’ossessiva ripetizione del suo Leitmotiv. Su questo versante, la responsabilità primaria delle classi dirigenti politiche ed economiche del complesso “occidentale” non può non essere denunciata, perché alla loro abdicazione in ogni campo (dall’educazione alla politica sociale, dalla formazione della coscienza civica alla produzione e promozione culturale in ambito cinematografico, radiotelevisivo, editoriale, musicale, delle arti figurative, ecc.) risale gran parte del disagio attuale dell’Europa di fronte alla massiccia penetrazione degli stereotipi culturali statunitensi nell’immaginario dei suoi abitanti.

La partita è dunque perduta per le culture diverse da quella americana? Debbono esse risolversi ad accettare un condizionamento a tempo indeterminato del modello statunitense su tutte le forme della loro dinamica sociale e ad accogliere il dominio coloniale della “koiné transnazionale” come il minore dei mali?

Non è detto. Sembra anzi che alcuni segni di rinnovamento e di evoluzione delle culture autoctone stiano manifestandosi sia in Europa che altrove: segnali consistenti, anche se talvolta contraddittori e difficili da interpretare. Per rimanere al contesto europeo, che ci riguarda più da vicino, si può constatare il progredire di una sensibilità di massa, diffusa specialmente fra le giovani generazioni, attorno ai temi della “qualità della vita”, vale a dire della dimensione qualitativa dell’esistenza individuale e collettiva. Quelli che alcuni sociologi hanno denominato “mondi vitali” (uno spettro di “nuovi movimenti” assai vasto, che abbraccia i comitati di cittadini e le associazioni che difendono le specificità etniche o linguistiche locali, i gruppi regionali autonomisti, ecologisti, neutralisti, pacifisti, le iniziative che esprimono attenzione verso la dimensione del sacro e della spiritualità, ecc.) fanno trasparire oggi un bisogno di comunità che, per quanto confuso, è indice di un’inversione di tendenza rispetto ai paradigmi vigenti nelle società mercantili.

A questi “mondi vitali” si lega la speranza di un ritorno dei valori al centro della dinamica sociale dei paesi sviluppati, in luogo dell’odierna schiacciante prevalenza degli interessi. Una speranza condizionata tuttavia dalla loro capacita di porsi in aperto e continuo confronto reciproco, perché un ripiegamento meramente difensivo su tematiche particolaristiche potrebbe provocarne la caduta nella trappola del marginalismo o del folklore. L’equilibrio instabile in cui oggi si trovano, dovuto a una precaria capacità di istituzionalizzarsi e all’ancora troppo recente manifestarsi dei loro poli di aggregazione, li espone infatti a diversi rischi.

Un primo pericolo riguarda più da vicino quei movimenti che hanno all’origine una mobilitazione di massa a sostegno di un unico e circoscritto obiettivo: la difesa di un bene minacciato, la tutela dell’ambiente, l’uso di una lingua o di un dialetto, l’autonomia di una regione e via dicendo. Qualora tendano a cristallizzarsi attorno a questo unico problema e a farne un referente esclusivo incapace di coniugarsi con aspirazioni di più ampio respiro, questi movimenti monotematici possono finire col trasformarsi in collettori di comportamenti egoistici e convergere nell’ondata di settorialismi che attraversa le società complesse, per loro natura soggette a moltiplicazioni di funzioni e a reti di interdipendenze, agendo da ulteriore fattore di disgregazione delle identità collettive. La riduzione delle esigenze di valore non comprimibili e non negoziabili espresse da un moto di ribellione culturale ad interessi materiali trattabili attraverso le normali procedure di mediazione di cui ogni sistema politico dispone, e perciò compatibili con il progetto di colonizzazione sociale di cui abbiamo in precedenza trattato, è un classico espediente di manipolazione a cui spesso hanno fatto ricorso in passato le classi dirigenti occidentali.

Ognuno dei nuovi soggetti politici suscitati dal disagio della modernità ha dunque di fronte a sé due possibili strade: una conduce a farne un polo di rappresentanza più dinamico e mobile dei partiti tradizionali, capace di porsi in concorrenza con essi e di renderne palese la crescente delegittimazione agendo in nome di una riconquista del diritto/dovere alla partecipazione politica popolare; l’altra lo può rinchiudere nei limiti tipici dei gruppi di pressione, costretti a subire i condizionamenti degli attori politici a cui affidano la speranza di vedere tradotte le proprie istanze in decisioni di validità generale. Accanto alla protesta antifiscale già viva da tempo e a quella corporativa professionale dei molti microgruppi in cui il sistema delle interdipendenze produttive ha frammentato il corpo sociale, il meccanismo dello scambio politico liberale può senza troppe difficoltà registrare e sopportare la rivendicazione etnoregionalista, ecologica o linguistica senza bisogno di rivoluzionare metodo e sostanza dei propri schemi di gestione.

Un altro pericolo, connesso a quello della prevalenza di una logica lobbystica su quella comunitaria iniziale, è quello della chiusura di taluni “mondi vitali” in un tipo di azione isolante anziché comunicante. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ai possibili esiti di un vizio d’origine, dal momento che i gruppi secondari – quelli che non hanno alla base vincoli di sangue o di solidarietà meccanica quotidiana imposta dalle circostanze dell’esistenza – cominciano a produrre nei loro membri identificazioni autonome, rigide ed esclusive e a sviluppare nel rapporto con gli altri gruppi gli atteggiamenti e gli stili di comportamento tipici di un gruppo primario, ispirati cioè ad immediatezza, intimità e specificità dei ruoli solo quando la frammentazione della cultura politica che li circonda supera il livello di guardia e minaccia la sopravvivenza dell’universo dei loro valori di riferimento. Può capitare però che la reazione alla spersonalizzazione che caratterizza le “società di mercato” attivi, oltre ad un recupero della creatività di gruppo dell’ambiente che ne è protagonista, una psicologia da circolo chiuso imbevuta di egoismo subculturale, che può sfociare soltanto dell’aggressiva esternazione di una vocazione all’egemonia o nell’imbalsamazione di un patrimonio di valori ridotto ad espressioni esoteriche.

L’avverarsi di uno o di entrambi questi pericolosi sviluppi rischia di pregiudicare l’unica praticabile strategia di opposizione al processo di colonizzazione sottile oggi in atto nell’emisfero occidentale: una produzione collettiva di senso comunitario da opporre alle logiche di mercato.

Non a caso, alcuni esponenti di rilievo della sociologia statunitense hanno di recente cercato di ridurre la fioritura dei “mondi vitali” a semplice indizio di una rivolta contro la modernità collegata ad immagini neo-romantiche e pre-capitalistiche, ad una sorta di nostalgia conservatrice per un mondo ormai tramontato, rifiutando di riconoscervi un rifiuto del generalizzato scivolamento delle civiltà verso il modello americano. Seymour Martin Lipset, nel suo contributo ad un’opera significativamente intitolata I limiti della democrazia, ha stipato in un’unica categoria, costituita a suo avviso dai movimenti politici che guardano “verso una visione romantica dell’armonia, della comunità, della semplicità e dell’ordine di un mondo da lungo tempo perduto” tutto il fronte del “post-materialismo”, imbattendosi in un paradosso. Convinto di trovarsi di fronte a “movimenti di destra, cioè conservatori” impegnati a reagire contro gli esiti secolarizzanti della modernizzazione, egli è partito dall’additare fra gli artefici di questa levata di scudi le forze “nostalgiche” e la cosiddette Nuova Destra, ma tutti i tentativi di conferire spessore alla sua ipotesi lo hanno portato a contatto con i soggetti della “nuova sinistra postmaterialista”: “movimenti regionalisti etnici da una parte e […] movimenti anti-tecnocratici dall’altra (ecologisti, gruppi contro l’energia nucleare, femministe e molti gruppi che si occupano di un solo problema)”. Ciò gli ha attirato le critiche di Achille Ardigò, il quale nelle esperienze di mobilitazione politica non istituzionali vede un’alternativa non distruttiva ad una democrazia assorbita così profondamente dalle logiche di mercato da non tollerare “insorgenze di domanda di senso”.

Diffusa in settori sociali ad elevata scolarizzazione, la proposta di una nuova politica dotata di un’alta capacità di identificazione rispecchia un attraversamento delle logiche di schieramento legate ai vecchi cleavages della politica novecentesca e agli schemi mentali del lungo dopoguerra europeo. Ridurre un così vasto e inquietante fenomeno ad un’esplosione di conservatorismo o limitarsi ad affermare, come fa Lipset, che la conseguenza più evidente dell’“ondata anti-modernista” abbattutasi negli anni Settanta e Ottanta sui sistemi politici occidentali “è stata quella di ridurre il nesso esistente fra la classe sociale e l’adesione a politiche di sinistra o di destra”, significa non cogliere la portata potenziale del processo innescato dal rifiuto dei nuovi movimenti collettivi di adeguarsi al sottinteso razionalistico-utilitario delle forme istituzionali della vita pubblica nei regimi liberaldemocratici.

L’insegnamento che si può trarre da questo notevole evento, ancora non pienamente compreso da molti osservatori ma già in marcato svilluppo, è invece molto più profondo. Da quando, in coincidenza con la crisi dell’immagine americana nel mondo alla metà degli anni Settanta, l’incidenza del marxismo classico è andata diminuendo nel ceto intellettuale, la cultura liberale ha preso a pattugliare i confini europei dell’impero a stelle e strisce, agendo – non sempre in malafede – come una vera e propria quinta colonna del progetto di dominio delle classi dirigenti statunitensi. A questa cultura, la stagione politica dei nuovi movimenti può contrapporre il fronte, variegato nelle aspettative ma solidale nello spirito dell’azione, di un non-conformismo che, superando gli schemi inattuali dell’opposizione destra/sinistra, rompa l’egemonia planetaria del modello occidentale. Emblema unificante di questo vasto spettro di forze potrebbe essere la nozione di specificità dei popoli e delle culture, attorno alla quale prende vigore l’ideale di una solidarietà organica e dinamica fra i componenti di una collettività, in opposizione ai miti diffusi per via massmediale dai sostenitori di una visione del mondo individualistica.

Il compito di chi intende combattere il progetto di omologazione culturale implicito nella colonizzazione sottile occidentalista che oggi tutti i paesi del mondo, sia pure in diversa misura, stanno subendo non è dunque scatenare una caccia alle streghe contro un paese, gli Stati Uniti d’America, o contro la cultura di cui esso è portatore, o di condannarne in blocco tutti gli atti e tutte le espressioni in nome di un nuovo manicheismo. Si tratta invece di arrestarne l’egemonia, di bloccarne le risorse di dominio, di allentarne la presa soffocante sulle altre culture. E questo non potrà avvenire sino a quando la causa dei diritti dei popoli non avrà trovato nelle coscienze, oggi stimolate ad occuparsi esclusivamente di diritti individuali, l’attenzione che merita.

Marco Tarchi

NOTE

 Cfr. Ernesto Galli della Loggia, Il mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 1982, e l’intervista da lui concessa ad Alessandro Campi, pubblicata con il titolo No, proprio non esiste il vostro “male americano”, in “Elementi”, II, 3/6, maggio-dicembre 1983, pagg. 28-32, dove i temi da noi indicati vengono ripresi e più ampiamente sviluppati.

 Cfr. Aleksandr Solzenicyn, Discorsi americani, Mondadori, Milano 1976, e Solgenitsin e l’Occidente : il discorso di Harvard e l’eco nella stampa, Circolo Stato e libertà, Roma 1979.

 Cfr. Alain de Benoist e Giorgio Locchi, Il male americano, LEdE, Roma 1979.

 Riccardo Scartezzini, Luis Germani, Roberto Gritti (acura di), I limiti della democrazia, Liguori, Napoli 1985. L’intervento di Lipset, intitolato La rivolta contro la modernità, è alle pagg. 117-157.

 La citazione in Seymour Martin Lipset, op. cit., pag. 133, rinvia a W. Zaph, Political and Social Strains in Europe Today, manoscritto non pubblicato giacente presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Mannheim.

 Cfr. Achille Ardigò, A proposito della rivolta contro la modernità: un ritorno depotenziato?, inI limiti della democrazia, cit., pag. 169.

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