Israele, Stato razzista che accende l’antisemitismo

antisemitismo

IsraeleLa Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale risale al 1965. Tuttavia, nella realtà dei fatti, il razzismo è sempre più vivo.

Nessuno Stato, nessuna istituzione pubblica o privata, nessuna forza politica può al giorno d’oggi dichiararsi razzista. I tempi del Sudafrica fondato sull’apartheid sono lontani. La Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale risale al 1965 (ed è entrata in vigore nel 1969), e non può più essere apertamente violata.

L’articolo 1 della citata convenzione stabilisce che “l’espressione «discriminazione razziale» sta ad indicare ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica.”(1). Ciò è sufficiente perchè ogni manifestazione di razzismo sia dichiarata illegittima ai sensi del diritto internazionale. Ciò è altresì politicamente difficile da ignorare.

Tuttavia, nella realtà dei fatti, il razzismo è ancora vivo e vigente. Si è rafforzato in molti paesi, anche in Europa, in varie forme e secondo modalità diverse da un paese all’altro. Il terrorismo, frutto della natura asimmetrica di alcuni conflitti che hanno preso una dimensione religiosa, ha incoraggiato, ad esempio in Francia (che peraltro non ha “dimenticato” la guerra d’Algeria), lo sviluppo di una islamofobia che dissimula un razzismo anti-arabo: il rifiuto di una religione (peraltro totalmente sconosciuta) conferisce al più ordinario dei razzismi una connotazione più “decente”. La lotta contro l’antisemitismo è sempre più  l’unica politica antirazzista perseguita dai governi occidentali, perché beneficia di un relativo consenso, ritenuto indispensabile nelle contese elettorali francesi, per esempio. Allo stesso modo l’estrema destra francese tende ad attenuare il suo tradizionale antisemitismo per consacrarsi alla sua politica di rifiuto dell’immigrazione maghrebina ed africana (2), politicamente più “redditizia”.

Il mondo occidentale, tuttavia, respinge ogni accusa di razzismo: sia che si tratti della politica americana di oppressione nei confronti dei cittadini neri, sia che si parli delle operazioni anti-Rom in Europa, o delle ostilità discriminatorie che incontrano i cittadini francesi di origine nordafricana di II o III generazione; le condanne nei tribunali sono molto rare e i mass-media rimangono discretamente silenti (come è avvenuto, nel periodo successivo agli attentati di Parigi del gennaio 2015, per i numerosi attentati contro le moschee e i luoghi di preghiera musulmani).

In Israele, la situazione non ha cessato di deteriorarsi, sia per la rilevante minoranza araba di nazionalità israeliana, sia per i Palestinesi vittime dell’occupazione quasi-coloniale a Gerusalemme e in Cisgiordania.

Lo stato israeliano, ma anche la società israeliana fortemente “spostata a destra”, si comportano sempre più come una ordinaria potenza coloniale la cui volontà politica è principalmente quella di “perseverare nel suo essere”, vale a dire a mantenere, a tutti i costi, la posizione egemonica sugli “arabi”, come è accaduto in passato per i francesi in Algeria fino all’indipendenza. Questo rifiuto di ogni compromesso, a parte i discorsi destinati agli alleati occidentali che pretendono di essere a favore di un “processo di pace” al quale non consentono però alcuna reale esistenza,  genera nella maggioranza degli israeliani un razzismo sempre più virulento.

Le origini della violenza razzista israeliana

Le autorità israeliane, preoccupate per la debolezza demografica della popolazione ebraica in Israele nei confronti dei palestinesi e del mondo arabo in generale, hanno favorito l’immigrazione nel paese da parte degli ebrei di tutto il mondo (3).

Per ottenere l’amalgama delle popolazioni provenienti dai paesi arabi, dall’Europa orientale e occidentale o dall’Africa nera, lo stato israeliano ha utilizzato il cemento dell'”ebraicità” per muoversi verso uno “Stato ebraico” vale a dire, uno Stato a base etnica e religiosa.

In ciò, i conservatori israeliani non vi hanno visto che benefici; la giudaizzazione cancella le divisioni di classe e lo sfruttamento di determinate fasce di popolazione, come quella degli ebrei venuti dall’Africa nera.

Inoltre, il peso della religione ha inibito lo sviluppo delle correnti socialiste e progressiste che furono importanti all’origine dello stato israeliano. Ad esempio, il movimento “Pace Adesso”, “Peace Now” ha perso molta della sua vitalità (4).

Il Partito laburista si è trasformato (come coalizione) in “Unione Sionista” e non costituisce più un’alternativa politica al Likud: la sua attuale parola d’ordine è “No-arabi”.

La massiccia immigrazione in Israele di “ebrei orientali” ha rafforzato le correnti più radicalmente razziste: animate da un revanscismo ora privo di complessi (essendo passati dallo status di minoranza ebraica in terra islamica a quella di maggioranza dotata di uno Stato) hanno fatto del Likud un partito campione della colonizzazione.

L’unica vera opposizione alla politica del governo è quella della lista comune giudeo-araba, che unisce i comunisti israeliani e i partiti che rappresentavano i palestinesi nel 1948, lista che ha permesso l’elezione nel marzo 2015 di 14 membri della Knesset (divenendo la terza forza del paese). L’obiettivo primario è proprio la lotta contro le discriminazioni, le disuguaglianze e il razzismo.

Il debutto di questa nuova unità tra una piccola minoranza di ebrei israeliani e l’insieme dei partiti arabi di Israele può tuttavia aumentare il livello di razzismo e l’ostilità generale nei confronti dei palestinesi israeliani!

Il rafforzamento della gerarchia sociale produce sempre il disprezzo verso i più poveri. La “ricchezza” degli israeliani (quantunque sussistano forti diseguaglianze tra ebrei), e la “povertà” della minoranza palestinese e dell’ambiente arabo sono la fonte di un sentimento di superiorità e di rifiuto tra gli israeliani che diviene produttore di un razzismo ordinario. Questo razzismo è particolarmente virulento negli ebrei più poveri (5) in grave difficoltà sociali, dal momento che sono in “concorrenza”  vitale per la terra con i palestinesi: questo è il caso, in particolare, delle “colonie” installate in Cisgiordania. Il disprezzo razzista per i più svantaggiati nella scala sociale si è manifestato sia nelle colonie tradizionali allo stesso modo che in Europa nei confronti dei lavoratori immigrati (compresi i lavoratori “bianchi”), e come negli Stati Uniti contro i lavoratori neri (6).

Le questioni sociali e il costo della vita, superiore a quello dei paesi occidentali,  costituiscono, nell’opinione pubblica israeliana, delle priorità, all’origine di molte manifestazioni di protesta e di massa (come nel 2011).

Ma, come in Europa, tutto viene intrapreso per fare delle esigenze “securitarie”  un grande diversivo. Le autorità israeliane insistono dunque in modo forte sul terrorismo di cui sarebbero responsabili i Palestinesi e gli Arabi, assimiliati a “barbari”, nei cui confronti sono concepibili solo rapporti di forza. Avigdor Lieberman, ministro degli Esteri, non esita a dichiarare di voler “decapitare con l’ascia” gli arabi israeliani che si oppongono al governo!

Il razzismo è anche diventata la fittizia risposta ai problemi sociali irrisolti: è lo strumento per giustificare la priorità data alle misure securitarie ed alla militarizzazione della società.

Gli scontri diretti con i palestinesi (in particolare le due Intifadas) e con alcuni stati arabi (Iraq nel 1981, Libano nel 2006, Siria nel 2007, in Sudan nel 2009) provocarono altresì in modo evidente, per passi successivi, un aumento del razzismo nei confronti degli “arabi” in generale. In occasione dell’apertura di ciascuna crisi, la brutale politica di repressione – sproporzionata rispetto ai pochi bombardamenti e lanci di razzi subiti – si aggrava ulteriormente.

Le operazioni militari contro Gaza ne sono l’esempio più palese. L’Arabo è assimilato ad un fanatico religioso privo di ogni spirito democratico.

La cultura dominante è quella della “fortezza assediata”, che possiede però una qualità “superiore” che gli permette di prevalere, a condizione di poter usare la forza senza complessi di sorta contro gli “arabi di Eretz-Israele” (come si disse fino al 1993, senza mai pronunciare la parola “Palestinesi”) e contro il mondo arabo e musulmano nel suo complesso (con l’eccezione di egiziani e giordani).

Questo tipo razzismo non è il risultato di codesti scontri, i quali saranno inevitabili sino a quando non esisterà nessuno Stato Palestinese vigente e riconosciuto da tutti. E’ piuttosto la legittimazione delle violenze esercitate contro i Palestinesi: l’uso della forza è accettato dalla grande maggioranza degli israeliani perché gli arabi sono – per natura – incapaci di capire null’altro che non sia la forza!

Un libro come quello di Benny Morris, pubblicato nel 2004 (“La nascita del problema dei rifugiati Palestinesi”) è rivelatore. Il suo autore descrive esplicitamente i Palestinesi come “barbari” che “attentano alla vita” degli israeliani, e che si devono “distruggere”. “La società palestinese – ha detto a Haaretz il 9.1.2004 –  è una società malata che dovrebbe essere trattata come vengono trattati i serial killer.” “Dobbiamo rinchiuderla dietro un muro”, aggiunge, perché “c’è lì un animale selvaggio che deve restare in gabbia”!

Infine, un ultimo fattore di sviluppo del razzismo in Israele è dato dall’estremo compiacimento che la politica israeliana raccoglie negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale (sia che si guardi ai politici che ai media mainstream). L’idea che ci sia una “sorta di trattativa permanente” come parte di un “processo di pace”, “arbitrato” dagli Stati Uniti è accuratamente coltivata. Gli Accordi di Oslo sono stati presentati quasi all’unanimità come la fine del conflitto, quando invece vertevano sull’organizzazione di un piano provvisorio di cinque anni (fino al 1999), nel quadro di una sorta di protettorato israeliano sull’Autorità Palestinese.

La posizione di Israele destinata al mondo occidentale ha bisogno di farsi vedere favorevole ai negoziati. “La diplomazia è necessaria per rassicurare l’Occidente e la nostra coscienza, ma solo la nostra forza convincerà gli Arabi a riconoscere che non ci potranno sconfiggere” (7).

Le molteplici violazioni in flagranza del diritto internazionale non suscitano in pratica alcuna reazione, ad eccezione di qualche dichiarazione senza portata pratica. Le risoluzioni delle Nazioni Unite non hanno alcuna efficacia e sono bloccate dagli Stati Uniti. Le relazioni presentate al Consiglio dei Diritti dell’Uomo si impantanano nelle procedure.

Le prese di posizione del Parlamento europeo non hanno nè seguito nè efficacia. Gli stati occidentali rimangono gli incrollabili alleati dello Stato di Israele. Questa alleanza è consolidata dal sostegno della lotta contro l’antisemitismo, che rimane l’unica politica antirazzista dell’Occidente prima dell’espansione (facilitata) del razzismo anti-arabo.

Un esempio, fra i tanti, ma poco conosciuto, è quello della violazione del Codice di condotta sulle esportazioni di armi, adottato dall’Unione europea il 9.12.1998. Nessuno Stato europeo è legittimato  ad esportare armi verso un paese “non rispettoso dei diritti umani”, e quando il medesimo  minacci “la pace, la sicurezza e la stabilità regionale.” Questo codice non ha efficacia alcuna nei confronti di Israele.

2. Le diverse forme di discriminazione razziale in Israele

Lo stato di Israele, che si dichiara attualmente “ebreo”, nonostante il suo 20% di cittadini palestinesi (in forte crescita demografica) e che espande continuamente i suoi “insediamenti” di tipo coloniale, in nome del recupero delle “terre sante” in Cisgiordania (in ragione di una crescita del 38% nel numero di coloni tra il 2000 e il 2007), si è autoproclamato la sola ed unica “democrazia” in Medio Oriente.

La realtà è radicalmente differente.

Per la “democrazia” israeliana, i Palestinesi non hanno avuto alcuna esistenza legale fino a quando non hanno fatto ricorso alla violenza. Ma dopo più di mezzo secolo, né i Palestinesi dei Territori Occupati né i Palestinesi del 1948 sono trattati da Israele come cittadini, senza tale qualità, essi non beneficiano in alcun modo di quel “diritto” di ingerenza che l’Occidente ha usato altrove.

All’interno dell’attuale ordine internazionale, Israele non ha alcun rispetto del diritto internazionale e del diritto umanitario: ha addirittura “inventato” con gli Stati Uniti, il concetto di “legittima difesa preventiva”, che le consente di procedere ad aggressioni in nome del proprio diritto ad esistere.

Tuttavia, a differenza delle potenze coloniali del passato e delle dittature dichiarate, lo Stato di Israele ha come specifica politica quella di utilizzare il diritto, non di rifiutarlo. Altamente occidentalizzato nel bisogno assoluto di mantenere i legami con gli Stati Uniti e coll’Europa, esso cerca di conservare la sua legittimità fingendo di essere un ‘”oasi di giustizia”, nel cuore del “deserto” alle porte dell’ Oriente. Il diritto è uno dei componenti, insieme alla religione, del potere israeliano. I due fattori si alimentano a vicenda: questa considerazione favorisce da parte degli Stati Occidentali un particolare riguardo verso Israele, ma lo favorisce anche al suo interno.

L’anti-terrorismo, è utilizzato per giustificare tutti gli ostacoli della legge, ma la Corte Suprema ha lo scopo di controllare l’esigenza di un “equilibrio” tra il rispetto dei diritti umani “e le esigenze di sicurezza. L'”iter giudiziario” è fattore essenziale per scagionare gli israeliani. L’effettiva possibilità per i palestinesi di poter presentare ricorso per l’annullamento contro gli atti dell’amministrazione israeliana permette di legittimare il loro asservimento: in pratica, le discriminazione non sono attenuate, sono legittimate! I diritti della difesa sono garantiti, ma la difesa non vince mai, senza eccezioni.

Soggetti a forme di legge diseguali con protezioni inefficaci, con risultati equivalenti a quelli che sarebbero in vigore all’interno di un sistema di apartheid,  i Palestinesi sono trattati come “sub-cittadini”. Ad esempio, nel settore economico, l’istituto della “concessione” che sembra avere un aspetto apparentemente amministrativo, dissimula nei fatti, attraverso una gestione arbitraria del suo rilascio, palesi disuguaglianze di trattamento. In agricoltura, alcune colture sono riservate ai soli coltivatori ebrei: la coltivazione di frutta, verdura e tabacco è un monopolio ebreo. Le attività più redditizie sono al di  fuori della portata degli “arabi” ed il sottosviluppo economico palestinese diviene istituzionalizzato. Il fatto che pochi palestinesi possano superare le discriminazioni settoriali non cambia per nulla i fenomeni discriminatori nella società israeliana, ma rende credibile un (illusorio) avvenire di società integrata.

Le procedure di esproprio della terra sono altrettanto significative: l’esproprio è deliberato in nome dei requisiti di sicurezza, ma le terre sono successivamente trasferite agli ebrei!

In materia di prestito bancario, le imprese palestinesi si vedono rifiutare le dilazioni di pagamento e il credito necessario, secondo una valutazione di opportunità comune alle banche di tutto il mondo: si constata però che nientemeno le imprese palestinesi discriminate sono quelle in concorrenza con le aziende ebraiche!

Si potrebbero fare le medesime osservazioni per il settore locatizio: il rifiuto di locazione di un proprietario ebreo ad un arabo è la regola!

Più in generale, il diritto e la legge sono eguali per tutti quelli che, attraverso il servizio militare, forniscono un contributo alla sicurezza dello Stato… Tuttavia, i Palestinesi (a differenza dei Drusi) non sono autorizzati ad entrare nell’esercito, da ciò deriva che essi non hanno diritto ad una serie di prestazioni sociali garantite solo a chi ha svolto il servizio militare. Nei fatti, i Palestinesi sono per Israele “dei pericolosi stranieri” e come tali vengono trattati.

Il risultato è l’isolamento dei palestinesi israeliani in determinati villaggi e quartieri che costituiscono una sotto-comunità ghettizzata. Più dei due terzi dei Palestinesi israeliani sono operai; più della metà di loro vive al di sotto della soglia di povertà; la mortalità infantile è doppia rispetto a quella degli ebrei israeliani.

La “democrazia” in Israele è riservata agli ebrei ed a qualche collaboratore arabo ed il razzismo ambientale giustifica tutte le discriminazioni “legali”.

All’interno dell’ordine internazionale, lo Stato procede, nello stesso modo in cui hanno fatto gli Stati Uniti, ad una sorta di “israelizzazione” del diritto internazionale che lo allinea sulle proprie pratiche. Ogni standard è rivisto e corretto in modo che coincida con la politica e la “legalità” israeliana. Questa “novellazione” del diritto internazionale pretende di giustificare gli indiscriminati raid di bombardamento aereo, gli atti di rappresaglia, le operazioni armate condotte nello spazio aereo, marittimo e territoriale e di altri Stati, le aggressioni armate contro le agenzie delle Nazioni Unite (tra cui l’UNRWA) ….

Israele procede ad una palese deformazione dei concetti giuridici del diritto internazionale, assegnandosi indebitamente una funzione di “polizia” in tutta la regione, come anche nell’Africa nera (quando si tratta di sostenere i suoi alleati). Queste ingerenze vengono presentate nientemeno che come azioni di mantenimento della pace e della sicurezza!

Si capisce dunque come per l’opinione pubblica in Israele, il fatto di avere dell’arabo una visione di “inferiore” e di “barbaro incivile” è una vera e propria necessità politica.

Questo razzismo ambientale che non cessa di rafforzarsi, come è avvenuto in Algeria nella misura in cui evolveva la guerra di liberazione nazionale, garantisce la coesione della società intorno allo “Stato ebraico” di giorno in giorno sempre più securitario (8). E’ diventato uno strumento di difesa nazionale. Esso non potrà regredire se non con una soluzione “deconfessionalizzata” del conflitto israelo-palestinese che si prolunga e si arena senza soluzione a breve termine. In effetti, la dimensione religiosa, asseritamente e pretestuosamente giudeo-islamica, che le istanze conservatrici d’Israele hanno conferito a questo conflitto lo rendono perfettamente insolubile.

Come ha scritto Akram Mussalam (9), che vive a Ramallah, “chi produce il filo spinato che mi circonda da ogni parte continua a divorare e distruggere i luoghi ed i sogni” …. Ma l’incubo non può durare per sempre.

*) Mohammed Bentoumi è Docente presso la Facoltà di Giurisprudenza di Algeri

Note:

1) n.d.t.: traduzione ufficiale in lingua italiana, da http://www.asgi.it/wp-content/uploads/public/convenzione.contro.ogni.discriminazione.razziale.pdf .

2) Il Front National, in Francia, si è avvicinato agli Israeliani (il vicepresidente Louis Aliot ha stabilito lui stesso dei contatti con Israele); ha espulso membri de «L’Oeuvre Française» giudicati eccessivamente antisemiti ecc.  La “moda” oggi in Francia è quella di accusare l’estrema sinistra (comprendente Front de Gauche, comunisti, ecc.) di sviluppare un “nuovo antisemitismo” sul pretesto delle campagne politiche agitate da queste forze contro la politica israeliana. Un sondaggio dell’8.11.2013 sui responsabili dell’antisemitismo indica solo il 27% l’estrema destra (contro il 67% che accusa l’estrema sinistra!)

3) Il Primo Ministro Netanyaou agita ancor oggi con un certo successo in un paese come la Francia una campagna in favore de “l’alya”, vale a dire dello stabilimento degli ebrei francesi in Israele.

4) Ari Shavit, per esempio, uno dei fondatori del movimento, ha radicalmente cambiato le sue posizioni in favore del militarismo e del sionismo. Si veda la sua intervista al periodico Haaretz dell’11 giugno 2006.

5) Ciò ricorda l’esacerbato razzismo dei “piccoli bianchi” (“petit blancs”) francesi in Algeria, malgrado il loro status di classe molto svantaggiata nei confronti dei grandi coloni.

6) Cfr. Ilan Pappe. «Une société intoxiquée par la haine?» In M. Collon e altri. Israël, Parlons-en ! Investig’Action. Bruxelles. 2011. Vedere anche:  M. Warshawski. A tombeau ouvert : la crise de la société israélienne. La Fabrique. Paris. 2003.

7) Cfr. Benny Morris, citato in P. Bouveret ed altri, “Qui arme Israël et le Hamas ?” Edizioni Amnesty International ed altri. 2009, p. 104.

8) I giovani israeliani, tuttavia, non si sentono del tutto solidali col loro paese, soprattutto a causa del pesante obbligo di leva. Il 40% di loro intendono abbandonarlo ed alcuni, animati da spirito pacifista, lo lasciano per ragioni politiche. Vedi L’Humanitè. 16.3.2015.

9) Akram Mussalam. La cigogne. Sindbad – Actes Sud. 2015.

Mohammed Bentoumi * 
Traduzione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
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