Favorire i competenti, senza sfociare nella tecnocrazia? È possibile

Quelli che seguono sono ampi stralci della prefazione pubblicata nel volume Contro la democrazia, pubblicato da LUISS University Press.

“È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre fin qui sperimentate”. Così, letteralmente, Winston Churchill fissava un principio fondamentale di supremazia storica del regime democratico nel discorso rivolto alla Camera dei comuni alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1947. A questa concezione relativistica della democrazia come “male minore” si richiamano un po’ tutte le analisi e le teorie moderne, di scienza politica o persino di filosofia, ispirate alla metodologia del “realismo”: da Machiavelli a Sartori, passando per Weber e Schumpeter, si cerca di capire cosa effettivamente sia la democrazia, come funzionino concretamente i suoi processi e i suoi attori, inevitabilmente controllati e influenzati da élite e gruppi di potere in competizione fra loro.

Ma persino ai tempi della sua fondazione concettuale e pratica, “democrazia” era una parola ambigua. In quanto forma “virtuosa” di governo era chiamata piuttosto politia, qualcosa che si avvicina molto al sistema di democrazia liberale fondata sul patto costituzionale e sul principio di rappresentanza. Quando ci si voleva riferire alla forma “deviata” di democrazia, la si definiva invece olocrazia, il governo delle masse senza distinzione alcuna, secondo gli schemi più vieti del populismo.

Prima ancora di Aristotele, Platone aveva fermato un criterio inderogabile per molti altri pensatori e teorici dei sistemi di governo: la politica è un affare troppo serio e complicato perché possa essere lasciato alla cura della gente comune; il potere politico deve essere gestito dai “sapienti”, da coloro che “sanno” e hanno le necessarie competenze. Questo modo di vedere le cose è chiamato comunemente “sofocrazia” o “noocrazia” (governo dei sapienti o dei capaci) e ha ispirato numerose scuole di pensiero politico in epoca moderna. Secondo Platone, una moltitudine non è mai in grado di amministrare uno Stato, a meno che non ci si trovi  in un contesto di estrema corruzione.

Per molto tempo a seguire, e ancora oggi, il modello della Repubblica di Platone, basato sul governo degli “esperti”, è stato considerato l’antitesi del modello democratico. Popper contrappone il “totalitarismo” platonico, prototipo dell’assolutismo moderno, all’idea di “società aperta”, fondata sui principi di libertà e pluralismo e praticata nella democrazia ateniese all’età di Pericle. In fondo, questa antinomia anticipa e radica il contrasto dei nostri giorni fra democrazia e tecnocrazia.

Ci sono poi le correnti dell’elitismo vecchio e nuovo: si tratta di variegate correnti di pensiero tutte nettamente contrarie alla democrazia parlamentare, e che concordano sulla tesi che il governo di una società debba essere retto da una classe “scelta” e necessariamente ristretta di individui.

Nel concetto moderno di democrazia confluiscono in sintesi due accezioni rilevanti della sua stessa storia: un’accezione “procedurale” (il rispetto delle regole del gioco) e l’altra “sostanziale” (la garanzia dei diritti di libertà e uguaglianza). Nella scienza politica contemporanea si guarda ormai a questa sintesi come al concentrato delle caratteristiche delle “qualità” democratiche ovvero delle caratteristiche che devono avere le democrazie “di buona qualità”, esprimibili in altrettante categorie osservative almeno in parte empiricamente controllabili.

Dovremmo chiederci a questo punto se esistono alternative praticabili e migliori rispetto alla democrazia rappresentativa. Secondo Norberto Bobbio, la risposta era negativa. La recente tesi “epistocratica” lanciata nel libro Contro la democrazia (LUISS University Press 2018) da Jason Brennan, filosofo della Georgetown University, non sembra affatto mettere in discussione il modello della democrazia rappresentativa quanto piuttosto le modalità del suo funzionamento: il problema e la crisi della democrazia non sono legati al principio della rappresentanza ma piuttosto alla indiscriminata estensione dei diritti di voto, attivo e passivo, promossa dal suffragio universale, che consente a una massa di elettori che non si interessano o non sanno nulla di politica di conferire il potere di legiferare e governare a una minoranza di eletti per lo più incompetenti e corrotti.

Brennan sostiene che vi siano almeno due versioni di populismo, una positiva (dare voce e risorse ai più deboli) e una negativa, quando tendiamo a considerare come populisti quei movimenti e individui che si ribellano contro i politici corrotti o incompetenti. Ma così facendo diamo loro più credito di quanto non meritino, perché tralasciamo il fatto che i loro elettori sono poco informati e molto inconsapevoli. Una ricerca dell’ANES – American National Election Studies – ha rivelato che gli elettori americani sanno a mala pena chi è il presidente in carica, non hanno nemmeno un’idea vaga di quale sia la percentuale di disoccupazione nel paese, né di quanto spenda il governo all’anno: un terzo di questa popolazione pensa che il versetto degli Atti degli Apostoli “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, reso celebre da Marx, faccia parte della Costituzione degli Stati Uniti. La stessa percentuale non sa citare i tre poteri dello Stato, e non conosce nemmeno il nome dei propri rappresentanti a Washington.

Come funzionerebbe l’epistocrazia

Brennan tiene a sottolineare che gli elettori disinformati e privi di cultura politica non siano affatto stupidi: semplicemente sono disinteressati agli affari politici e di governo e sanno di poter persistere in questo atteggiamento di rifiuto e ignoranza, o indulgere a convinzioni politiche false e irrazionali senza che tutto ciò si ripercuota sul loro diritto di voto. Ma secondo il nostro autore, per essere ammessi a scegliere con il voto se confermare o mandare a casa questo o quel rappresentante in Parlamento o in Comune, l’uno o l’altro candidato alla Presidenza, occorrerebbe dimostrare di sapere almeno chi abbia ricoperto ruoli elettivi di potere nel precedente mandato, quali fossero i mezzi reali a sua disposizione, quali le possibili opzioni politiche e di governo, a quali risultati avrebbero portato scelte diverse. Ed è questa, in sostanza, la proposta contenuta nel suo modello di epistocrazia.

Come lo stesso Brennan riconosce, montagne di prove dimostrano che la democrazia generalmente opera meglio di una dittatura o di un’oligarchia. Ma egli sostiene che queste non sono le sole possibili alternative alla democrazia. C’è anche l’”epistocrazia” – il “governo di coloro che conoscono”. L’elettorato potrebbe prendere decisioni migliori se fosse limitato per renderlo più consapevole e meno prevenuto. Per la maggior parte delle persone, le idee come quella di epistocrazia suonano come difesa del governo di una piccola élite, che potrebbe facilmente abusare dei propri poteri. Ma Brennan presenta una varietà di strategie che potrebbero migliorare la qualità dell’elettorato, come limitare il diritto di voto a coloro che sono in grado di passare una prova elementare di conoscenza politica. A quelli dotati di maggiori conoscenze potrebbero invece essere concessi voti supplementari (idea già di John Stuart Mill nel XIX secolo). Se il risultato di questo elettorato più esperto è dis-rappresentativo (ad esempio, relativamente a specie, genere, età o ricchezza), ai voti dei membri più informati di questi gruppi “sotto-rappresentati” potrebbe essere dato un peso maggiore. In alternativa, potremmo rendere l’elettorato potenzialmente più esperto e più rappresentativo di quanto lo sia ora, persino ricorrendo una specie di “lotteria per il diritto di voto”, cioè estraendo a sorte gli elettori legittimati a esprimere le scelte politiche.

I precedenti dei minorenni e degli immigrati

Tali idee possono sembrare, e in un certo senso sono, molto radicali. Ma per molti aspetti, si tratta solo di modeste estensioni dello status quo. Sostiene Brennan che escludiamo già oltre il 20% della nostra popolazione dal diritto di voto, perché pensiamo che siano ignoranti e hanno scarsa capacità di giudizio: chiamiamo quelle persone “minorenni”, e non sentiamo alcun senso di colpa per la loro esclusione sistematica dai circuiti del potere politico. La cosa colpisce la maggior parte di noi in termini di semplice buon senso. L’idea di lasciare che alcuni di loro votino se possono dimostrare che sono più informati di un adulto medio è considerata radicale e pericolosa. Non consentiamo che gli immigrati legali ottengano il diritto di voto a meno che non superino un prova di educazione civica che la maggior parte dei nativi americani probabilmente fallirebbero. Parecchi Stati escludono inoltre dal diritto di voto molti dei malati mentali e dei condannati. Sta bene escludere i diciasettenni dal voto, ma perché non anche un diciannovenne o un quarantenne, la cui la comprensione dei problemi è scarsa o peggiore di quella di un minorenne medio? Se possiamo escludere gli immigrati ignoranti, perché non possiamo farlo per gli autoctoni ignoranti?

Chi deve comandare – e come deve essere designato chi comanda – è la domanda che si pose Platone, e in fondo si pone anche Brennan sulla scia di una lunghissima tradizione di teoria politica. Con risposte sempre storicamente mutevoli. I filosofi ovvero i sapienti, era stata la risposta di Platone, alla quale è in qualche modo riconducibile la proposta di “epistocrazia” avanzata da Brennan, anche se la “sapienza” da lui invocata è una conoscenza basica di cultura politica che non ha la pretesa di accostarsi al modello platonico di “sofocrazia”. Altri hanno dato risposte diverse: devono comandare i sacerdoti, i militari, i tecnici, i “migliori” del popolo. Per altri, invece, è bene che comandi una persona sola: un re di stirpe divina, un tiranno o un principe armato.  Altre risposte indicano invece il popolo per volontà della nazione, questa o quella classe, questa o quella razza. Ma la domanda di Platone – commenta Popper – “è sviante, irrazionale. […] Razionale è piuttosto quest’altra domanda: come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?”

La risposta che ne dà Popper, come è noto, è quella di una “società aperta” garantita dal regime della democrazia liberale. Come spiega Yascha Mounk, viviamo tempi “straordinari” nei quali regna il caos diffuso, e si moltiplicano le crudeltà in uno scenario di progressiva consunzione dei sistemi liberal-democratici, mentre fioriscono per contro democrazie illiberali (o al contrario liberalismo senza democrazia), strette dall’alternativa esiziale fra populismo e tecnocrazia [Mounk 2017].  Tuttavia, in attesa che l’Autore spieghi meglio i dettagli del suo progetto “epistemocratico”, non possiamo non dirci d’accordo sulle sue critiche al funzionamento delle attuali democrazie. Ed è persino difficile dissentire dall’idea portante delle sue argomentazioni che la democrazia non sia una forma di “intelligenza o saggezza collettiva”, come sostiene una lunga serie di autori sulla scorta di Aristotele. Primo, perché questi attributi possono essere predicati di individui e non di masse indifferenziate di elettori, fra i quali sono davvero pochi coloro che si impegnano e sono un minimo informati per concorrere consapevolmente alla formazione di scelte collettive. E secondo perché, proprio per questo, la democrazia “aritmetica”, nella quale i voti si contano, non coincide con la democrazia “epistemica” nella quale i voti pesano.

In conclusione, si può essere più o meno d’accordo con le diagnosi di crisi della democrazia avanzate da Brennan e con le terapie proposte, peraltro non compiutamente indicate né tanto meno realizzabili nei sistemi contemporanei (come riconosce lo stesso Autore). Ma è certo che questo libro sembra come una roccia precipitata in un immenso specchio d’acqua che, complice la presunta “fine della storia” che postula la perennità e insostituibilità del modello di democrazia liberale [Fukuyama 2003], correrebbe il rischio di diventare una palude stagnante.

 

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