Di alcuni miti sull’America

Il voto per le primarie del centrosinistra in Italia, il 25 novembre 2012, rappresenta uno dei momenti in cui in modo più evidente è percepibile l’influsso della cultura americana nella vita politica italiana. È un fenomeno rimarchevole per un paese dalle forti radici cattoliche e social-comuniste come l’Italia, se si tengono presenti le pulsioni fortemente anti-americane presenti nelle culture della chiesa di Stato e del “partito-chiesa” in Italia. Siamo lontani dai tempi dell’americanismo alla Alberto Sordi e da un’Italia grata agli alleati per la Liberazione ma ancora sanamente scettica rispetto alla cultura di un paese così giovane come gli Stati Uniti [Video]. Tracciare le radici del nuovo americanismo politico nell’Italia degli ultimi due decenni è compito arduo. Ma ci sono alcuni miti apparentemente inattaccabili di questo neo-americanismo italiano. Il primo mito, particolarmente forte presso i giovani italiani che giustamente vedono nel sistema Italia un sistema bloccato dalle caste e dalle gerontocrazie, è quello del merito. Il merito in America è premiato, ma solo dopo aver avuto la possibilità di frequentare buone scuole. Buona parte della popolazione è esclusa da queste scuole per motivi di reddito: le scuole statali sono buone solo in alcuni Stati e nei quartieri buoni delle città di quegli Stati; le scuole primarie e secondarie private sono assai costose, e le università private sono costosissime. I giovani laureati italiani che approdano in America per un dottorato o per un lavoro sono fortunati perché arrivano senza il fardello degli “student loans” (i mutui per debiti di studio) che appesantiscono la vita intera di un americano che si laurea o si addottora oggi. Questi debiti possono andare dai trentamila dollari per una laurea in un’università di medio livello fino ai duecentomila dollari (e oltre) per chi si laurea in medicina o in legge: spesso capita che uno debba accettare e rimanere per tutta la vita in un certo posto di lavoro solo per poter pagare i debiti accumulati negli anni dell’università. Il sistema del “merito” in America si poggia ancora su un sistema di spaventose diseguaglianze sociali, sia a sfavore dei disoccupati e sottoccupati, sia a sfavore di quanti hanno un lavoro ma devono lavorare, come gli immigrati nel settore dell’agroalimentare, in condizioni di semi-schiavitù legale. Un secondo mito è quello del giovanilismo. Le cosiddette start-ups sono tipiche del mondo americano, ma anche in America la gerontocrazia esiste. Sono i geronti che erogano il capitale sociale e finanziario per iniziare una start-up: per i fortunati, ci sono i padri e i nonni della famiglia che possono investire nei giovani; gli altri devono affidarsi ai banchieri che devono decidere se e come erogare un mutuo per iniziare un’impresa. Per quanto riguarda la politica, il mondo americano vede un ricambio notevole all’interno del Congresso, ma anche parecchi veterani, la cui credibilità come politici non viene misurata in anni di età o in legislature (esiste un limite di due mandati per la presidenza, non per i parlamentari), ma nella capacità di “legislator” . Tra i presidenti più efficaci, la storia americana ricorda Franklin Roosevelt (eletto alla presidenza quattro volte tra 1936 e 1944) e Lyndon Johnson (dalla leggendaria capacità di convincere personalmente deputati e senatori a votare per un provvedimento di legge); tra i senatori, Ted Kennedy e “Tip” O’Neill, grandi mediatori tra il Partito democratico e presidenti repubblicani, entrambi politici professionisti di lungo corso. Un terzo mito è quello relativo ai costi della politica: un taglio ai finanziamenti pubblici ai partiti significherebbe, agli occhi degli americanofili, minori costi della politica. In America, negli ultimi anni, è successo esattamente il contrario: un’esplosione dei costi della politica (cioè, delle campagne elettorali), a tutti i livelli, locali e nazionali. Le elezioni presidenziali del 2008 hanno battuto ogni record, e quelle del 2012 hanno battuto quelle del 2008, con una cifra vicina ai 6 miliardi di dollari (700 milioni in più di quattro anni prima); nel novembre scorso, la sconfitta in un’elezione senatoriale è costata oltre 100 milioni di dollari (di patrimonio personale investito nella campagna) alla sfidante, ex manager del mondo del wrestling. Non v’è dubbio che l’Italia sia afflitta da grandi mali, e che le questioni del merito, della gerontocrazia e dei costi della politica siano problemi reali. Ma gli americanofili italiani hanno un’idea del sistema americano affetta da miopie tipiche di chi non vive negli Stati Uniti o ci vive nel mondo dorato delle business school – un mondo ancor più isolato dalla realtà rispetto al resto delle università americane, che è già un mondo a parte. Molti degli americanofili italiani hanno un’idea di America prima del “big squeeze” degli ultimi tre decenni, quando le diseguaglianze sono aumentate e le opportunità si sono fatte maggiori per i privilegiati e minori per le classi medie e basse. In molti casi, gli europei che “ce l’hanno fatta” in America tendono a vedere nella loro esperienza un caso tipico del sistema America: studiare in buone università pubbliche (in Europa), e poi trovare lavoro in ottime (e costosissime per gli studenti) università private in America. Non si pretende che sentano gratitudine per l’impopolare “università di massa” italiana: ma che almeno non tentino di imporre all’Italia un sistema, come quello americano, sempre più classista. Ma forse è proprio quello che vogliono.

Massimo Faggioli

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