Brogli alle elezioni, ecco chi li ha inventati

Brogli alle elezioni, ecco chi li ha inventati

Brogli alle elezioni, ecco chi li ha inventatiLa parola è nata a Venezia, ai tempi pieni d’intrighi del Doge. Così come un’altra: “ballottaggio”.

Quando diciamo “broglio” non ce ne rendiamo conto, ma stiamo parlando veneziano.

Già, perché questo termine evocato a ogni elezione, assieme a un altro che pure riguarda le urne (che però in Italia ha a che fare solo con la nomina del sindaco), “ballottaggio”, viene dritto dritto dal sistema elettorale adottato a Venezia per eleggere il doge e per votare le leggi. Sistema che deve aver affascinato parecchio, se in inglese “ballot” vuol dire voto, e “ballot box” urna elettorale.

Il perché è presto detto: il Maggior consiglio veneziano, e tutti gli organi costituzionali della Serenissima, prendevano le loro decisioni votando con le balote (palline): si introduceva in un’ urna una palla di stoffa bianca se favorevoli, nera se contrari. Si contavano le palle e si dichiarava l’esito della votazione. Venezia era una repubblica e la sovranità risiedeva nel Maggior consiglio, ovvero l’assemblea del patriziato (il doge, ovvero il capo dello Stato, aveva una funzione più che altro rappresentativa con scarsissimo potere reale). Essere nobile – ma a Venezia si diceva patrizio – corrispondeva col far parte del suddetto Maggior consiglio che, dopo la “serrata” del 1297, non accetta più nuovi membri se non in condizioni eccezionali (in sostanza pagando un mucchio di quattrini in occasioni di guerre particolarmente gravose). Non esisteva nobiltà terriera, ovviamente, né i titoli propri di coloro ai quali veniva infeudato qualcosa; i patrizi veneziani sono stati d’ufficio equiparati a conti soltanto in epoca austriaca. Durante la Serenissima, l’unico titolo che loro spettasse era quello di “nobil homo” e davanti al nome anteponevano un “ser”. Poteva capitare che fuori da Venezia facessero i ganassa, come ai tempi di Lepanto, quando tra loro si chiamavano “magnifico misser”, tanto che Gianandrea Doria (il genovese odiava – ricambiato – i veneziani) li nominava sprezzantemente “i magnifici”.

I patrizi, che arrivano a essere anche oltre 1.500, l’1 per cento circa della popolazione, non erano mai tutti presenti nel Maggior consiglio, perché un certo numero era in missione nelle cariche riservate al patriziato: comandante di galea (per i più giovani), podestà e capitani (amministratori civili e militari) delle città suddite, che nel periodo di massima espansione andavano da Candia (l’attuale Heraklion, capoluogo dell’isola di Creta) a Crema, exclave veneziana in Lombardia. Il patriziato aveva origini mercantili, ma dopo la serrata del 1297 parecchie famiglie decadono e si impoveriscono tanto che i nobili poveri – detti “barnabotti” perché abitavano attorno alla zona di San Barnaba – diventano un problema sociale. Sopravvivono ricoprendo alcune cariche pubbliche che prevedono un introito anziché un esborso (poche, le cariche più importanti – prima fra tutte quella di doge – costavano un mucchio di soldi a chi era chiamato a ricoprile, ma conferivano un prestigio talmente elevato che nessuno si rifiutava) e vendendo il loro voto.

Ed ecco che torniamo al punto da cui siamo partiti.

Le assemblee del Maggior consiglio (in genere una volta alla settimana, nel pomeriggio di domenica) si svolgevano nel silenzio assoluto. Chi aveva la parola poteva parlare, ma senza alzare troppo la voce, i patrizi tra loro potevano al massimo bisbigliare. Gli scranni erano disposti in modo tale da non guardare in direzione del doge e la signoria che sedevano su un rialzo lungo la parete di fondo (decorata dal “Paradiso” del Tintoretto), ma verso le pareti più lunghe, dove vari dipinti celebravano le glorie della repubblica. Al momento di votare sfilavano a uno a uno, sempre nel più rigoroso silenzio, davanti all’urna dove lasciavano cadere la pallina o bianca o nera, secondo la scelta. Siccome la “balota” di pezza nel cadere non faceva alcun rumore, non era nemmeno possibile individuare gli astenuti che non deponevano alcunché nell’urna. Quest’ultima (ne esistono ancora alcuni esemplari sopravvissuti) era fatta in modo tale che per votare bisognasse introdurre entrambe le mani fino al polso da due aperture giustapposte, così da garantire l’assoluta segretezza del voto.

Le complicate modalità di elezione del doge, stabilte nel 1268, arrivano con pochissime modifiche fino alla caduta della repubblica (12 maggio 1797) e, attraverso una serie di estrazioni a sorte ed elezioni, si finiva che da 45 eletti venivano estratti a sorte 11 che eleggevano 41 grandi elettori che a loro volta eleggevano il doge. I 41 dovevano avere almeno trent’anni e votavano con “balote scarlatte” ovvero palle rosse con una croce gialla; perché un candidato risultasse eletto doge, doveva ricevere almeno 35 voti. Le palle di pezza venivano estratte dall’urna da un ragazzino, detto “ballottino ducale”. Tutto questo sistema cervellotico e complicato doveva servire a garantire la trasparenza del voto; in realtà, a mano a mano che passavano i secoli, si accrescevano anche i sistemi per controllarne l’esito. Per esempio, bastava che tra i 41 venisse eletto un certo numero di candidati amici per potersi garantire il dogado. Si poteva comprare anche l’elezione di cariche molto ambite, come quelle di senatore (120 membri), di membro del consiglio dei Dieci (a dispetto del nome, era composto da una trentina di persone) di procuratore di San Marco (erano in 9), seconda carica dello Stato, e unica vitalizia, oltre a quella di doge.

La nobiltà senatoria, composta da una trentina di famiglie, queste sì tutte molto ricche, si garantiva di ricoprire a rotazione le cariche più prestigiose, comprando i voti dei patrizi poveri. Ma dove avveniva il mercato dei voti? Non nell’aula del Maggior consiglio – lì bisognava rimanere in silenzio – ma nel cortile di Palazzo Ducale che aveva conservato il nome di quando era un prato, un orto, in veneziano “brolo”, o “brojo”, “o broglio”. I nobiluomini quindi andavano in broglio, e quelli disposti a vendere il voto abbassavano sul braccio la stola nera che abitualmente tenevano sulla spalla, sopra la toga nera appannaggio dei patrizi (il nero a Venezia era colore della solennità, non del lutto, che invece era contraddistinto da un verde rossiccio detto “pavonazzo”). Rapide trattative facevano sì che il loro suffragio andasse all’uno o all’altro candidato. Per comprarli non si ricorreva necessariamente al denaro, ma si poteva garantire loro l’elezione a una di quelle cariche ambite dai patrizi poveri, come rettore di una qualche città di provincia di secondaria importanza, ma dalle casse piuttosto pingui. Ecco quindi che gli accordi elettorali, non sempre limpidi, presi nel broglio venivano poi sanciti dal ballottaggio nella solennità dell’aula del Maggior consiglio.

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